Francesco Belmonte
Il tema della parità di trattamento nei luoghi di lavoro ha progressivamente assunto un rilievo crescente, con particolare riferimento al profilo fondamentale della c.d. parità di genere. Al riguardo, il Legislatore è intervenuto più volte, passando dalla enunciazione della parità “formale” tra lavoratori e lavoratrici (L. n. 903/1977) alla previsione di azioni positive finalizzate a realizzare una parità lavorativa “sostanziale” fra uomo e donna (L. n. 125/1991), fino a giungere all’adozione di un T.U. (D.Lgs. n. 151/2001), che ricomprende l’intera disciplina, con le modifiche da ultimo apportate con il D.Lgs. n. 80/2015.
Il termine discriminazione identifica un trattamento non paritario attuato nei confronti di un individuo o un gruppo di individui in virtù della loro appartenenza ad una particolare categoria.
La legislazione italiana in materia è stata fortemente influenzata dall’evoluzione del diritto e delle politiche della Comunità, prima, e dell’Unione europea, poi (v. ROCCELLA, TREU, Diritto del lavoro dell’Unione europea, Cedam, 2012, 239; CALAFA’, GOTTARDI, Il diritto antidiscriminatorio tra teoria e prassi applicativa, Ediesse, 2009).
È stato, in effetti, proprio il diritto comunitario, con l’art. 119 del Trattato di Roma del 1957, istitutivo della CEE (oggi art. 157 TFue), a promuovere i vari aspetti della parità, quando la gran parte dei diritti nazionali era al riguardo inattiva o contraria. Con l’istituzione della cittadinanza europea e con la focalizzazione dell’attenzione sulla persona in quanto tale, a prescindere dallo svolgimento di un’attività economica, la prospettiva è poi cambiata nell’ottica di un maggior riconoscimento dei diritti sociali. Oggi, il principio di parità è uno dei compiti fondamentali dell’Unione europea, da perseguire trasversalmente in tutte le sue politiche ed i suoi ambiti di intervento.
Nell’ordinamento italiano, il diritto antidiscriminatorio affonda le proprie radici innanzitutto nell’art. 3 Cost., considerato sia da un punto di vista formale, come uguaglianza davanti alla legge (co. 1), sia da un punto di vista sostanziale, come compito della Repubblica di rimuovere gli ostacoli che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza, impediscono la realizzazione di condizioni di effettiva parità (co. 2).
Altra norma di riferimento è l’art. 37, co. 1, Cost. che, da un lato, intende garantire alla lavoratrice che le condizioni di lavoro non compromettano e siano anzi adeguate alle esigenze delle funzioni familiari e materne; dall’altro, vuole evitare che la famiglia e lo stato di maternità possano pregiudicare il lavoro femminile, traducendosi, di fatto, in un ostacolo all’esercizio del diritto al lavoro e in sistematiche penalizzazioni nella vita professionale (v. Corte Cost., 5 marzo 1969, n. 27, in GCost, 1969, 371).
In materia di lavoro, norma fondamentale è l’art. 15 dello Statuto dei Lavoratori (L. n. 300/1970), che rimane, tutt’oggi, la pietra d’angolo dell’architettura antidiscriminatoria.
Agli originari motivi sindacali, politici e religiosi sono poi stati affiancati, sotto l’impulso convergente delle scelte innovative del legislatore nazionale e di quello comunitario, nuovi fattori di potenziale rischio: sesso, razza e lingua (con la L. n. 903/1977), handicap, età, orientamento sessuale e convinzioni personali (con i D.Lgs. nn. 215 e 216/2003), rafforzando così la tutela dei soggetti appartenenti a gruppi svantaggiati.
La stratificazione delle norme causata dal costante evolversi della materia ha indotto infine il Legislatore ad attuare un “piano di riordino”, con l’adozione del Codice delle pari opportunità (D.Lgs. n. 198/2006).