Francesco Belmonte
L’ evoluzione della vigente normativa antidiscriminatoria e del diritto comunitario in materia ha determinato una progressiva articolazione nella classificazione dei fenomeni antidiscriminatori. Tradizionalmente si distingue tra discriminazione diretta e indiretta (v., per tutti, F. CARINCI, Diritto del lavoro, II, Il rapporto di lavoro subordinato, Utet, 2012, 211). L’art. 25, co. 1, D.Lgs. n.198/2006 (c.d. Codice Pari Opportunità), considera discriminazione diretta “qualsiasi disposizione, criterio, prassi, atto, patto o comportamento, nonché l’ordine di porre in essere un atto o un comportamento, che produca un effetto pregiudizievole discriminando le lavoratrici o i lavoratori in ragione del loro sesso e comunque il trattamento meno favorevole rispetto a quello di un’altra lavoratrice o di un altro lavoratore in situazione analoga”.
La legislazione comunitaria definisce la discriminazione diretta come la situazione nella quale una persona è trattata meno favorevolmente, in base al sesso, di quanto sia stata o sarebbe trattata un’altra persona in una situazione analoga (Direttiva n. 2006/54).
Alla luce di tali definizioni, dunque, è chiaro che per discriminazione diretta si intende ogni condotta con la quale la persona, in ragione del genere, viene fatta oggetto di un trattamento sfavorevole, rispetto alle persone appartenenti all’altro genere. Così, la Corte di Giustizia UE (sent. 6 marzo 2014, n. 595/12, in RIDL, 2014, II, 936) ha stabilito che costituisce discriminazione diretta l’esclusione di una donna in congedo di maternità da un corso di formazione professionale obbligatorio per ottenere la nomina in ruolo e beneficiare di condizioni d’impiego migliori. Ma si pensi, altresì, alle frequenti ipotesi della mancata assunzione o al licenziamento di una lavoratrice in ragione della comunicazione di una gravidanza.
La discriminazione indiretta riguarda invece i casi in cui un trattamento omogeneo produce conseguenze diverse sui gruppi individuati dal legislatore, a causa delle specificità che connotano la maggioranza degli appartenenti ad un certo gruppo.
Questo tipo di discriminazione attiene non ad un determinato fattore di rischio, ma ad un criterio neutro e di per sé legittimo, idoneo a provocare un impatto differenziato – e quindi con esiti discriminatori – tra gruppi di persone considerate, sfavorendo un gruppo rispetto ad un altro.
Così, la giurisprudenza ha ravvisato l’esistenza di discriminazioni indirette in quei bandi di concorso che prevedano, per i concorrenti, un’altezza minima al di sopra di quella che statisticamente è la media femminile, ma entro quella maschile (Cass. 13 novembre 2007, n. 23562, in NGC, 2008, 579), o, anche, nelle maggiorazioni retributive connesse alla disponibilità degli interessati ad orari variabili che, di certo, vedono penalizzate le donne (Corte Giust. UE, 17 ottobre 1989, c.109/88).
In base alla formulazione contenuta nell’art. 25, co. 2, D.Lgs. n. 198/2006, che riprende quella comunitaria, si verifica una discriminazione indiretta “quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri mettono o possono mettere i lavoratori di un determinato sesso in una posizione di particolare svantaggio rispetto ai lavoratori dell’altro sesso, salvo che riguardino requisiti essenziali allo svolgimento dell’attività lavorativa, purché l’obiettivo sia legittimo e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari”.
L’individuazione di una discriminazione indiretta costituisce, pertanto, un compito delicato per il Giudice, poichè comporta un’approfondita valutazione dell’atto discriminatorio nel contesto di riferimento, al fine di verificare se un comportamento che appaia, ad un primo esame, legittimo, nasconda, in realtà, una forma di ingiustificata differenziazione.
Nel rispetto dei principi di proporzionalità e ragionevolezza, sono possibili, comunque, deroghe al divieto di discriminazione nelle particolari ipotesi di attività lavorative in cui il sesso giunge a costituire una condizione determinante per lo svolgimento dell’attività lavorativa. È, ad es., questo il caso dell’assunzione di soli lavoratori uomini o di sole lavoratrici donne nel campo della moda, con la finalità di partecipare ad una sfilata per una collezione maschile o femminile. In tali ipotesi, la discriminazione all’accesso al lavoro è del tutto legittima.