Francesca Albiniano
Il diritto di critica all’interno dei luoghi di lavoro è espressione della libertà di manifestare il proprio pensiero sancita dall’art. 21 Cost., ed è ribadito dall’art. 1 L. n. 300/1970 (Statuto dei lavoratori) che, da un lato, garantisce la libera manifestazione del pensiero, e, dall’altro, pone un’esigenza di contemperamento con i principi della Costituzione e delle norme dello Statuto medesimo (v., BETTINI, Il diritto di critica del lavoratore nella giurisprudenza, in AA.VV., Diritto e libertà, Studi in memoria di Matteo Dell’Olio, Giappichelli, 2008, 141).
Il diritto di critica non può dunque essere esercitato in modo indiscriminato, ma trova un primo limite in tutti gli altri diritti con eguale copertura costituzionale e nelle norme che ne fondano i presupposti giuridici (V. Corte Cost. 4 maggio 1970, n. 65).
L’esposizione di idee attraverso la critica risulta potenzialmente dannosa quando è attuata nei confronti del datore di lavoro da parte del lavoratore. Quest’ultimo, infatti, grazie all’inserimento nel tessuto aziendale, ha un contatto diretto e continuo con dati e fatti concernenti la realtà organizzativa. Sicché, la sua critica può risultare particolarmente incisiva e dannosa.
Sotto il profilo dell’autenticità dei fatti denunziati, un pilastro essenziale è rappresentato dal rispetto del principio di “continenza sostanziale”, in base al quale i fatti narrati devono essere veri ed obiettivi (la giurisprudenza, sul punto, è consolidata. Fra le tante, v. Cass. 10 dicembre 2008, n. 29008; App. Milano, Sez. lav., 24 ottobre 2014, n. 972).
Va poi rispettato il principio di pertinenza, secondo cui la critica deve risultare logica, adeguata e coerente con il fine perseguito. Il lavoratore, quindi, deve astenersi dal muovere accuse “baldanzose”, gravando su di lui l’obbligo di valutare l’effettiva consistenza degli elementi in proprio possesso che potrebbero screditare il datore di lavoro.
Per quanto concerne le modalità di espressione della critica, assume un particolare rilievo il principio di continenza formale, attinente alla correttezza e civiltà delle forme espressive utilizzate. Pertanto, la manifestazione del pensiero, deve rispettare forme linguistiche, sia scritte che verbali, che evitino frasi denigratorie, offensive e diffamatorie o che ledano l’onore e la reputazione, nonché qualsiasi aspetto della personalità del datore di lavoro (v., Cass. 14 maggio 2012, n. 7471).
Il lavoratore ha poi l’onere d’improntare il proprio comportamento ad un’intensa cooperazione, nel rispetto dei principi di correttezza e buona fede, che regolano il contratto di lavoro, in ragione dello specifico assetto d’interessi che in esso si realizza (artt. 1175 e 1375 cod. civ.. V., fra le tante, Cass. 28 dicembre 2012, n. 24003).
L’esercizio del diritto di critica non deve inoltre violare il dovere di fedeltà gravante sul dipendente ex art. 2105 c.c.(v. Cass. 18 settembre 2013, n. 21362). Secondo tale disposizione, il lavoratore non deve trattare affari in concorrenza con l’imprenditore, né divulgare notizie sull’organizzazione e i metodi di produzione dell’impresa, o farne uso in modo da poter recare ad essa pregiudizio. Tali comportamenti sono infatti idonei a ledere irrimediabilmente il presupposto fiduciario del rapporto di lavoro stesso (v. Cass., 26 marzo 2013, n. 7499). Con la conseguenza che le opinioni espresse dal dipendente comportanti la diffusione di notizie e giudizi pregiudizievoli per l’impresa sono sanzionabili con il licenziamento.