Francesco Belmonte
In ambito giudiziale, uno dei maggiori ostacoli alla effettiva repressione degli atti discriminatori consiste nella difficoltà, per colui che li subisce, di fornirne la prova. Invero, secondo le regole generali, il lavoratore che agisce in giudizio deve provare il fatto storico in cui si concreta la discriminazione. Tuttavia, molte delle circostanze utili per la valutazione della naturadiscriminatoria di un atto del datore di lavoro rientrano nella c.d. “sfera datoriale”, tanto che per il lavoratore può risultare arduo (quando non impossibile) conoscerle ed addurre le prove necessarie a dimostrare la discriminazione subìta.
Consapevole della difficoltà di assolvere un siffatto onere probatorio, la normativa europea ha cercato di avvantaggiare sul piano probatorio il lavoratore vittima di discriminazione, imponendo agli Stati membri di adottare le “misure necessarie”, conformemente ai propri sistemi giudiziari nazionali, per assicurare che, qualora le persone che si ritengano lese dalla mancata applicazione nei loro riguardi del principio della parità di trattamento espongano, dinnanzi a un tribunale o a un’altra autorità competente, fatti dai quali si possa presumere che vi sia stata una discriminazione, diretta o indiretta, incomba alla parte convenuta provare che non vi è stata violazione del principio della parità di trattamento (cfr. artt. 8 Dir. n. 2000/43/CE; 10, Dir. n. 2000/78/CE; 19, Dir. 2006/54/CE, rubricati “Onere della prova”).
La normativa nazionale di recepimento in tema di prova della discriminazione (art. 40, D.Lgs. n. 198/2006) ha, nella specie, previsto espressamente che, nell’ipotesi in cui il ricorrente fornisca “elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico relativi alle assunzioni, ai regimi retributivi, all’assegnazione di qualifiche e mansioni, ai trasferimenti, alla progressione in carriera e ai licenziamenti”, dai quali si possa presumere, “in termini precisi e concordanti”, l’esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori, spetti al convenuto l’onere di provare l’insussistenza della discriminazione (v., LA MACCHIA, Sub art. 40 D.Lgs. 11 aprile 2006, n. 198, in DE LUCA TAMAJO, MAZZOTTA, Commentario breve alle leggi sul lavoro, Cedam, 2013, 2340-2341; Cass. 05 giugno 2013, n. 14206, in MGL, 2013, 667).
Il lavoratore che voglia far valere in giudizio il mancato rispetto del principio di parità di trattamento nei suoi confronti è, quindi, dispensato dall’onere di fornire la c.d. piena prova degli elementi di fatto posti a base del proprio ricorso introduttivo, essendo sufficiente la semplice deduzione di fatti in qualche modo significativi per porre a carico del datore di lavoro il compito di provare l’insussistenza della discriminazione, tanto da potersi parlare, in generale, di regime agevolato di allegazione della prova (v. FONTANA, Sub art. 4 D.Lgs. 9 luglio 2003, n. 216, in DE LUCA TAMAJO, MAZZOTTA, Commentario…, cit., 1975-1976).
In altri termini, la vittima della discriminazione dovrà fornire elementi di fatto, relativi, ad esempio, a trasferimenti, tali da far presumere l’esistenza di un comportamento discriminatorio in ragione del sesso, mentre sarà onere del datore di lavoro dimostrare in giudizio che la diversità di trattamento è avvenuta non per fini discriminatori, ma legittimi, come, ad esempio, per ragioni inerenti all’organizzazione dell’impresa (v., BERGAMASCHI, BISONNI, Accertamento della discriminazione, in DPL, 2015,1268).
In definitiva, con riferimento all’onere della prova della discriminazione, i giudici nazionali, sia di merito che di legittimità, si sono più volte pronunciati sul punto in modo sostanzialmente unanime.
In particolare, è stato precisato che: “In tema di comportamenti datoriali discriminatori, l’art. 40, D.Lgs. 11 aprile 2006, n. 198 – nel fissare un principio applicabile sia nei casi di procedimento speciale antidiscriminatorio che di azione ordinaria, promossi dal lavoratore ovvero dal consigliere di parità – non stabilisce un’inversione dell’onere probatorio, ma solo un’attenuazione del regime probatorio ordinario, prevedendo a carico del soggetto convenuto, in linea con quanto disposto dall’art. 19 della Direttiva n. 2006/54/CE, l’onere di fornire la prova dell’inesistenza della discriminazione, ma ciò solo dopo che il ricorrente abbia fornito al giudice elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico, relativi ai comportamenti discriminatori lamentati, purché idonei a fondare, in termini precisi (ossia determinati nella loro realtà storica) e concordanti (ossia fondati su una pluralità di fatti noti convergenti nella dimostrazione del fatto ignoto), anche se non gravi, la presunzione dell’esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori in ragione del sesso” (Così, Cass. 05 giugno 2013, n. 14206, cit.; Corte Giust. UE, 21 luglio 2011, C-104/10).