L’utilizzo, da parte di un vice-capo reparto, di un social network per diffondere giudizi dispregiativi sull’organizzazione aziendale lede il rapporto di fiducia fra le parti e giustifica il licenziamento.
Nota ad ordinanza del Trib. Parma 16 maggio 2016, n. 1263
Un lavoratore, con mansioni di vice-capo reparto di frutta e verdura presso una grande azienda del settore della distribuzione alimentare, in relazione all’intenzione, manifestata dall’azienda stessa, di far lavorare i dipendenti anche di domenica, pubblica il seguente giudizio su Facebook: “e’ un’offesa ai lavoratori che lavorano la domenica! Tanto meritate solo disprezzo egregi padroni ci costringete a lavorare di domenica con dei discorsi che sanno di ricatto. Anzi li costringete!”.
L’azienda lo licenzia in tronco per giusta causa (senza preavviso). Il lavoratore presenta ricorso per chiedere la reintegra nel posto di lavoro in quanto il “post “riguardava una critica rivolta alla organizzazione generale del mondo del lavoro e della società, richiamando, tra l’altro, un disegno di legge in itinere.
Il giudice conferma la legittimità del licenziamento, affermando che: il lavoratore svolgeva “compiti di particolare responsabilità nella gestione del personale”, in qualità di vice-capo reparto dell’azienda; “in ragione della mansione svolta, il vincolo fiduciario” doveva “essere valutato con particolare rigore”.
Sulla base di queste ragioni, secondo il giudice, l’affermazione del lavoratore ha compromesso irrimediabilmente il vincolo fiduciario nei confronti dell’azienda; azienda che aveva affidato al ricorrente mansioni di responsabilità con compiti anche di organizzazione (svolti coadiuvando il capo reparto) e di gestione del personale sottoposto.
Il giudice ha inoltre sostenuto che il lavoratore era “perfettamente conscio della illegittimità del suo comportamento” poiché aveva cercato di difendersi spostando l’oggetto del giudizio da un evidente episodio di diffamazione del proprio datore di lavoro – a mezzo internet e segnatamente Facebook, strumento idoneo a diffondere il messaggio a migliaia di persone in modo indiscriminato – a quello di preteso esercizio di critica dell’odierna società e di sue presunte storture.
Per di più, egli aveva manifestato, da un lato, “disprezzo per i padroni”, insultando l’azienda ed aveva avanzato una minaccia di insubordinazione, affermando di non volersi piegare “al presunto ricatto”, nel senso che non avrebbe mai lavorato di domenica.
In questo caso, si ripropone un tema ancora attuale: fin dove arriva il legittimo diritto di critica del lavoratore?.
Il tema affrontato dalla ordinanza in esame (con contenzioso di natura sommaria – ex art. 1, co. 47, L. n. 92/2012, c.d. Rito Fornero – presumibilmente rimeditabile nella fase dell’opposizione ex art. 1, co. 51, L. n. 92/2012), ripropone la problematica dei confini del diritto di critica del lavoratore (sul punto, v., già, il contributo di F. Albiniano, Contenuto e limiti del diritto di critica del lavoratore, in www.soluzionilavoro.wordpress.com).
Come noto, l’art. 1 dello Statuto dei lavoratori (L. n. 300/1970) prevede che “i lavoratori, senza distinzione di opinioni politiche…hanno diritto…nei luoghi dove prestano la loro opera, di manifestare liberamente il proprio pensiero”; l’art. 8 dello Statuto medesimo rafforza tale diritto prevedendo che “è fatto divieto al datore di lavoro, ai fini dell’assunzione, come nel corso dello svolgimento del rapporto di lavoro, di effettuare indagini…sulle opinioni politiche, religiose e sindacali del lavoratore…”.
D’altra parte, secondo la recente giurisprudenza di legittimità, “l’esercizio da parte del lavoratore del diritto di critica sulle attività aziendali, come noto, seppur garantito dagli artt. 21 e 39 della Costituzione, incontra limiti nella correttezza formale e nel diritto, parimenti costituzionalmente garantito ex art. 2 Cost., di tutela della persona, tanto da non poter prevalere sul contrapposto interesse alla reputazione ed all’onore del datore di lavoro. Qualora tali limiti vengano superati, con l’attribuzione all’impresa o ai suoi rappresentanti di appellativi disonorevoli, di riferimenti volgari e infamanti e di deformazioni tali da suscitare il disprezzo e il dileggio, il comportamento del lavoratore può costituire giusta causa di licenziamento, pur in mancanza degli elementi soggettivi ed oggettivi costitutivi della fattispecie penale della diffamazione”. (v. anche Cass. 24 maggio 2001, n. 7091”). In tema, v. il contributo di F. Albiniano, Criticare l’impresa oltre i “limiti” consentiti configura giusta causa di licenziamento, in www.soluzionilavoro.wordpress.com.