Niente “Fornero” per i dipendenti pubblici: al licenziamento intimato dalle Amministrazioni nei confronti del proprio personale si applica la versione originaria dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori.
Nota a Cass. 9 giugno 2016, n. 11868.
Gennaro Ilias Vigliotti
La Cassazione (sentenza n. 11868 del 9 giugno 2016) è tornata sulla dibattuta questione dell’applicabilità o meno del regime legale dei licenziamenti del settore privato introdotto con la legge n. 92/2012 (c.d. “Legge Fornero”) anche ai lavoratori dell’area pubblica.
In particolare, decidendo sulla controversia sorta tra il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti ed un suo funzionario licenziato in violazione della procedura disciplinare, i giudici di legittimità hanno escluso che nel nostro ordinamento possa estendersi la disciplina della “Fornero” ai lavoratori del pubblico impiego.
La Corte ha dunque confermato l’esistenza di un “doppio binario” nel sistema normativo dei licenziamenti: da una parte, i lavoratori del settore privato, cui si applica, a seconda del momento dell’assunzione, l’art. 18 riformato dalla “Legge Fornero” o il recente “Jobs Act” (d.lgs. n. 23/2015); dall’altra, i dipendenti pubblici, cui, secondo la sentenza in commento, si applica il dettato originario dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori.
La differenza tra i due regimi non è solo nominale.
Secondo il dettato del “vecchio” art. 18, infatti, il giudice, quando dichiarava inefficace o nullo il licenziamento, oppure lo annullava per assenza di giusta causa o giustificato motivo, era tenuto ad ordinare al datore di lavoro, nelle imprese con più di 15 dipendenti, di reintegrare il lavoratore illegittimamente licenziato nel posto di lavoro (secondo il modello della c.d. “tutela reale”).
A seguito della novella del 2012, invece, è stato introdotto un sistema differenziale di protezione, con la tutela reale (limitata ad ipotesi specifiche di licenziamento) affiancata ad una tutela di natura indennitaria, cioè sprovvista dell’obbligo di reintegrazione e fondata sul solo obbligo del pagamento di una somma di danaro.
Con riferimento ai lavoratori del settore pubblico, però, a seguito dell’introduzione della “Fornero”, in assenza di norme chiare sul punto, si erano posti numerosi problemi di configurabilità: in particolare, diversi osservatori hanno autorevolmente sostenuto che l’art. 97 della Costituzione – secondo il quale l’Amministrazione Pubblica agisce attenendosi ai principi di imparzialità e buon andamento – rappresenta un ostacolo serio alla tutela di tipo solo indennitario dinanzi ad un licenziamento illegittimo. In sostanza, secondo alcuni quando un Ente Pubblico licenzia in violazione delle norme sulla giustificazione del recesso, la sanzione, in linea con l’imparzialità ed il buon andamento della Pubblica Amministrazione, può essere solo quella della reintegrazione c.d. “forte”, ai sensi del testo originario dell’art. 18 Stat. Lav..
In realtà, in giurisprudenza le posizioni non sono sempre state univoche: di recente, infatti, le stesse Sezioni Lavoro della Cassazione (sentenza n. 24157 del 26 novembre 2015) hanno affermato il principio esattamente opposto, stabilendo che al pubblico impiego c.d. “privatizzato” (ovvero la parte largamente maggioritaria dei dipendenti delle Amministrazioni) si applica l’art. 18 nella versione aggiornata dalla “Fornero” (con la reintegrazione c.d. “debole”, poiché limitata a specifiche ipotesi), in ragione del complesso apparato normativo che regola il settore, ed in particolare in ragione del disposto dell’art. 2, co. 2, del d.lgs. n. 165/2001 (Testo Unico sul pubblico impiego), il quale rende applicabile ai pubblici dipendenti le principali norme dettate per il lavoro privato nell’impresa, incluse eventuali novelle legislative.
Con la sentenza in commento, dunque, la Corte di Cassazione, tornando nuovamente sui suoi passi, rende più incerto il quadro legale cui fare riferimento per valutare le conseguenze di un licenziamento pubblico illegittimo: una situazione d’incertezza, quest’ultima, che potrebbe incentivare la stessa Corte di legittimità a devolvere alle Sezioni Unite il compito di individuare un indirizzo interpretativo univoco e definitivo.