Attenzione ai selfie! Possono essere motivo di licenziamento se viene violato l’obbligo di diligenza e fedeltà.
Giovanni Piglialarmi
Il lavoratore non può porre in essere, pena il licenziamento, oltre che comportamenti espressamente vietati dal codice disciplinare, qualsiasi condotta che, per la natura e per le possibili conseguenze, risulti in contrasto con l’obbligo di fedeltà (ai sensi dell’art. 2105 c.c.) e con l’osservanza dei doveri di diligenza (art. 2104 c.c.) nonché di correttezza e di buona fede (artt. 1175 e 1375 c.c.). Tali obblighi sono essenzialmente connessi al suo inserimento nella struttura e nell’organizzazione dell’impresa e si impongono anche nei comportamenti extralavorativi (Cass. 10 febbraio 2015, n. 2550; conforme, Cass. 2 febbraio 2016, n. 1978).
Le modalità con cui il lavoratore può violare il dovere di fedeltà sono numerose ed eterogenee. Fra queste, rileva, per la particolare importanza e frequenza del fenomeno, quella dei c.d. selfie scattati durante l’orario di lavoro, e quella dell’utilizzo del sociale network e/o della navigazione in rete. Così, se il lavoratore scatta e diffonde un selfie che rivela metodi e/o strumenti di produzione dell’azienda, si può ipotizzare la violazione del dovere di non “…divulgare notizie attinenti all’organizzazione e ai metodi di produzione dell’impresa, o farne uso in modo da poter recare ad essa pregiudizio” (previsto dall’art. 2105 c.c.).
Un altro esempio riguarda la pubblicazione su facebook di foto (peraltro scattate in orario di lavoro). Al riguardo, i giudici milanesi, con una decisione risalente al 2014 (v. Trib. Milano, ord. del 1° agosto 2014, Giud. Colosimo), ma di grande attualità, hanno affrontato il caso di un lavoratore che aveva pubblicato, sulla propria bacheca facebook, delle foto che lo ritraevano in compagnia di altri due colleghi e che erano accompagnate da alcune frasi – ritenute dal Giudice offensive e lesive dell’immagine dell’azienda – chiaramente riferite all’ambiente di lavoro e al datore di lavoro. A seguito di tale episodio, l’azienda ha licenziato il dipendente, in quanto dalle foto risultava che il lavoratore si era allontanato dalla sua postazione, interrompendo così la prestazione di lavoro durante l’orario prestabilito. Inoltre, il lavoratore, accanto alle foto, aveva aggiunto delle frasi ingiuriose volte a gettare discredito sull’azienda.
Secondo l’azienda, la condotta tenuta dal lavoratore ha violato le disposizioni dell’art. 5, n. 1) e n. 2), lett. e) e o) del Ccnl del settore Gomma e Plastica, che prevede il licenziamento del lavoratore in tutti i casi in cui egli “commetta gravi infrazioni alla disciplina o alla diligenza nel lavoro o che provochi alla azienda grave nocumento morale o materiale…”.
Il Giudice ha accertato la particolare gravità della condotta tenuta dal dipendente, affermando che “è senz’altro vero che le foto non sono state pubblicate sul sito dell’azienda e che le didascalie non recano il nome della società, ma, inserite nella pagina pubblica del ricorrente, esse risultano accessibili a chiunque e, senz’altro, a tutta la cerchia delle conoscenze più o meno strette del lavoratore: dunque, a tutti quei soggetti che, per essere familiari, colleghi o comunque conoscenti di dipendente, sono perfettamente in grado di sapere che l’espressione di discredito è riferita allo specifico datore di lavoro”.
Il Tribunale ha quindi accolto le ragioni dell’azienda e ritenuto lecito il licenziamento per giusta causa intimato al dipendente, rilevando che la condotta contestata: a) era stata realizzata durante l’orario di lavoro, con conseguente interruzione della prestazione e abbandono del posto, e con l’utilizzo di strumenti aziendali estranei, peraltro, alle mansioni di competenza; b) era idonea a ledere il generale obbligo di fedeltà gravante sul lavoratore in quanto in contrasto con i doveri scaturenti dall’inserimento dello stesso nel contesto organizzativo dell’impresa e lesive (anche potenzialmente) dell’affidamento riposto dal datore di lavoro sulla sua persona (su tali doveri, v., fra le tante, Cass. 18 settembre 2014, n. 19684).