Il datore di lavoro che, tramite un investigatore privato, accerti l’utilizzo anomalo o parziale dei “permessi” ai sensi della L. n. 104/92, può licenziare il dipendente per giusta causa.
Kevin Puntillo
Nota a Cass. 6 maggio 2016, n. 9217.
Il lavoratore che, fruendo di permessi mensili retribuiti (L. n. 104/92, art. 33, co.3) per assistere la cognata disabile non convivente, svolga solo parzialmente l’assistenza in questione, può essere licenziato per giusta causa. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione (n. 9217/2016), la quale ha anche formulato una serie di importanti principi in relazione alla facoltà del dipendente di beneficiare (in maniera continuativa ovvero frazionabili in ore) di tre giorni di permesso mensile retribuito (coperto da contribuzione figurativa) per assistere un familiare in situazione di disabilità grave. I giudici hanno rilevato:
a) in primo luogo, che il datore di lavoro può ricorrere ad un’agenzia investigativa per controllare l’effettività dell’assistenza (nella specie, secondo il rapporto dell’agenzia investigativa, il dipendente era stato visto recarsi presso l’abitazione dell’assistita – cognata non convivente, affetta da grave disabilità – per un numero di ore inferiore a quello previsto, cioè non oltre due terzi del tempo). Le disposizioni dello Statuto dei lavoratori (L. n. 300/1970, art. 5) in materia di divieto di accertamenti da parte del datore di lavoro sulle infermità per malattia o infortunio del lavoratore dipendente (e sulla facoltà dello stesso datore di lavoro di effettuare il controllo delle assenze per infermità solo attraverso i servizi ispettivi degli istituti previdenziali competenti) non precludono, infatti, al datore medesimo di procedere, al di fuori delle verifiche di tipo sanitario, ad accertamenti, mediante investigatori, di circostanze di fatto atte a dimostrare l’insussistenza della malattia o la non idoneità di quest’ultima a determinare uno stato d’incapacità lavorativa e, quindi, a giustificare l’assenza;
b) in secondo luogo, che il comportamento del lavoratore, il quale utilizzi i permessi non per l’assistenza al familiare, bensì per attendere ad altra attività, integra l’ipotesi dell’abuso di diritto, giacché tale condotta si palesa, nei confronti del datore di lavoro come lesiva dei doveri di correttezza e buona fede – privandolo ingiustamente della prestazione lavorativa in violazione dell’affidamento riposto nel dipendente e costringendolo a modifiche organizzative per sopperire all’assenza de dipendente – ed integra nei confronti dell’Ente di previdenza erogatore del trattamento economico, un’indebita percezione dell’indennità nonché uno sviamento dell’intervento assistenziale (la Cassazione precisa che si tratta di un “caso di strumentalizzazione, particolarmente insidiosa, di un istituto disposto a fini di interesse generale, che incide notevolmente sulla libera autorganizzazione imprenditoriale ed anche sulla utilizzazione di risorse pubbliche”);
c) in terzo luogo, che la condotta del lavoratore è di gravità tale da comportare il venir meno del vincolo fiduciario alla base del rapporto di lavoro, tanto da costituire giusta causa di licenziamento (art. 2119 c.c.), anche se il fatto non è espressamente contemplato come infrazione sanzionabile dal codice disciplinare previsto dal c.c.n.l. Secondo la costante giurisprudenza di legittimità, infatti, tale codice ha funzione meramente indicativa e certamente non esclude la possibilità di licenziare per giusta causa, laddove ne ricorrano i presupposti (Cass. 7 ottobre 2013, n. 22791, in LG, 2014, 82; Cass. 29 febbraio 2012, n. 3060).