L’esclusione dalla selezione per un posto di lavoro motivata dall’uso dello hijab costituisce una discriminazione diretta in ragione dell’appartenenza religiosa.
Maria Novella Bettini e Donatella Casamassa
È discriminatorio escludere da una selezione di lavoro una candidata di fede musulmana, a causa della sua decisione di non togliere lo hijab, cioè il velo che copre i capelli e lascia scoperto il volto. Il principio è stato stabilito dalla Corte d’Appello di Milano (20 maggio 2016, n. 579), secondo cui “l’insussistenza in capo alla società selezionatrice di una volontà di discriminare la ricorrente in quanto appartenente all’Islam, non assume alcuna rilevanza atteso il carattere oggettivo che connota la discriminazione che esso produce, restando del tutto estraneo al sindacato del giudice lo stato psicologico – dolo, colpa, buona fede – dell’autore dell’atto discriminatorio”. Una condotta è cioè “discriminatoria se determina in concreto una disparità di trattamento fondata sul fattore tutelato a prescindere dall’elemento soggettivo dell’agente” (nel giudizio di primo grado, invece, il comportamento della società era stato ritenuto legittimo sul presupposto dell’insussistenza dell’intento discriminatorio).
Quanto al quadro legislativo posto a fondamento del divieto delle condotte discriminatorie, i giudici milanesi – pur non soffermandosi sulle norme, costituzionali e non, che potrebbero a ragione essere invocate nel caso esaminato (ad es. artt. 2, 3, 8 e 35 Cost., 15 Stat. Lav. e 21 Carta dei diritti fondamentali) – affermano che la decisione della società di selezione di non ammettere la candidata al colloquio per il lavoro ha determinato in capo alla stessa: 1) una “esclusione o restrizione” ai sensi dell’art. 43 del D.Lgs. 27 luglio 1988, n. 286 e s.m.i. (TU immigrazione) “menomando la sua libertà contrattuale e restringendo la possibilità di accedere ad una occupazione”; 2) ed una illecita discriminazione in base all’art. 3, co. 1, D.Lgs. 9 luglio 2003, n. 261 (in attuazione della Direttiva 2000/78/CE) in relazione alla parità di trattamento “senza distinzione di religione, di convinzioni personali, di handicap, di età e di orientamento sessuale”, con specifico riferimento all’ “accesso all’occupazione e al lavoro, sia autonomo che dipendente, compresi i criteri di selezione e le condizioni di assunzione…”.
E’ vero che l’art. 4 della Direttiva n. 2000/78/CE, in tema di “requisiti per lo svolgimento dell’attività lavorativa”, consente l’applicazione di una differenza di trattamento che “costituisca un requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell’attività lavorativa, purché la finalità sia legittima e il requisito proporzionato”. E che, ai sensi dell’art. 3, co. 3, D.Lgs. n. 216/2003, “Nel rispetto dei principi di proporzionalità e ragionevolezza e purché la finalità sia legittima, nell’ambito del rapporto di lavoro o dell’esercizio dell’attività di impresa, non costituiscono atti di discriminazione ai sensi dell’articolo 2 quelle differenze di trattamento dovute a caratteristiche connesse alla religione, alle convinzioni personali, all’handicap, all’età o all’orientamento sessuale di una persona, qualora, per la natura dell’attività lavorativa o per il contesto in cui essa viene espletata, si tratti di caratteristiche che costituiscono un requisito essenziale e determinante ai fini dello svolgimento dell’attività medesima”.
Ma è altresì vero, secondo i giudici di Milano, che la condotta tenuta dalla società di selezione ha utilizzato un criterio “intimamente collegato con quello vietato”, che costituisce, per giurisprudenza comunitaria, discriminazione diretta. In altri termini, essendo il hijab un abbigliamento che caratterizza l’appartenenza alla religione musulmana, l’esclusione dalla selezione per un posto di lavoro motivata dall’uso del velo costituisce una discriminazione diretta in ragione dell’appartenenza religiosa. La società è stata pertanto condannata al risarcimento del danno, ex art. 28, D.Lgs. n. 150/2011.
La questione dell’ammissibilità del “velo” nei luoghi di lavoro è evidentemente ricca di implicazioni e suscettibile di determinare un forte impatto sociale ed un aspro contenzioso.
In senso opposto alla sentenza in esame, si è pronunciato l’avvocato generale della Corte di Giustizia UE nelle sue conclusioni relative alla Causa 31 maggio 2016, C. 157/15, concernente il licenziamento di una receptionist che voleva indossare il velo islamico durante l’orario lavorativo (le conclusioni dell’avvocato generale non sono vincolanti per il giudizio finale della Corte di Giustizia UE, la cui pronuncia è attesa a breve).
Ipotizzando situazioni analoghe (“Una disposizione aziendale…, può riguardare parimenti il dipendente di sesso maschile di fede ebraica che si presenta al lavoro con una kippa, oppure il sikh, che desidera prestare servizio con un dastar (turbante), oppure, invece, le dipendenti e i dipendenti di fede cristiana che portano al collo una croce ben evidente oppure che vogliono indossare al lavoro una maglietta con la scritta «Jesus is great”), l’avvocato generale ha affermato che il datore di lavoro ha diritto di imporre il divieto del velo sul luogo di lavoro (ex art. 2, par. 2, lett. a), Direttiva 2000/78/CE), nel caso in cui l’azienda persegua una politica di neutralità religiosa ed ideologica che vieti sul posto di lavoro “segni politici, filosofici e religiosi visibili, e non poggi su stereotipi o pregiudizi nei confronti di una o più religioni”. Ciò, specie se il requisito richiesto sia essenziale e determinante per lo svolgimento dell’attività lavorativa (v. art. 4, paragr. 1, Direttiva 2000/78/CE), nonché proporzionale all’obiettivo di neutralità dell’impresa con riguardo a: “le dimensioni e la vistosità del segno religioso, il tipo di attività della lavoratrice, il contesto in cui ella è tenuta a svolgere tale attività, e l’identità nazionale dello Stato membro interessato”.