Lo svolgimento di attività medica extra-muraria non autorizzata per più di una volta non è motivo sufficiente per licenziare un medico di struttura sanitaria pubblica. Il provvedimento espulsivo, infatti, deve essere il frutto di una valutazione complessiva della gravità dell’inadempimento compiuto, che prenda in considerazione tutti gli aspetti del fatto e non il solo dato della ripetizione della violazione.
Gennaro Ilias Vigliotti
Le condotte che giustificano il licenziamento disciplinare senza preavviso del medico di struttura sanitaria pubblica sono tipizzate dall’’art. 13 del CCNL 19 aprile 2004 per il personale del comparto pubblico della Sanità, come modificato ed integrato dall’art. 6 del CCNL 10 aprile 2008. In particolare, la contrattazione collettiva autorizza il recesso “in tronco” ogniqualvolta la violazione sia grave al punto da non consentire, nemmeno provvisoriamente, il rapporto di lavoro con il medico strutturato (art. 13, co. 8, lett. d).
La disciplina contrattuale, però, richiama anche il principio della gradualità e proporzionalità delle sanzioni e prevede che le stesse debbano essere inflitte tenendo conto dell’intenzionalità del comportamento, della rilevanza degli obblighi violati, delle responsabilità connesse alla posizione di lavoro occupata dal dipendente, del grado di pericolo o di danno causato all’azienda o agli utenti del servizio, nonché della sussistenza di circostanze aggravanti o attenuanti.
Alla luce di tali criteri, dunque, la condotta di un medico che reiteri la violazione consistente nello svolgimento di attività medica privata senza autorizzazione della struttura pubblica di appartenenza non integra necessariamente una causa di responsabilità disciplinare talmente grave da autorizzare il datore di lavoro al licenziamento senza preavviso.
A stabilirlo è stata la Sezione Lavoro della Corte di Cassazione, nella sentenza 11 luglio 2016, n. 14103, relativamente all’atto di recesso intimato ad un medico di un’ASL, che aveva ripetuto la violazione del codice disciplinare già commessa in passato, consistente nella prescrizione di cure mediche presso la propria abitazione senza previa autorizzazione, durante il periodo di aspettativa non retribuita per motivi personali e per prestazioni di lieve entità e non necessitanti un’applicazione medica rilevante.
Secondo i giudici di legittimità, dunque, sebbene l’attività svolta dal medico fosse stata resa in chiara violazione dei doveri disciplinari, le condizioni di fatto in cui tale attività era stata compiuta – ovvero la circostanza della sua coincidenza con la sospensione momentanea del rapporto per aspettativa e la modesta entità dell’intervento sanitario svolto – non potevano considerarsi elementi sufficienti ad incrinare irrimediabilmente il vicolo di fiducia sottostante il rapporto di lavoro tra l’ASL ed il dipendente, legittimando un recesso senza preavviso: per queste ragioni, la Cassazione ha giudicato illegittimo il licenziamento per giusta causa intimato al medico.
Con questa sentenza, la Corte si è allineata a quell’indirizzo giurisprudenziale (v. anche di recente Cass. n. 13158/2015) secondo il quale «in tema di licenziamento per giusta causa, ai fini della proporzionalità fra fatto addebitato e recesso, viene in considerazione ogni comportamento che, per la sua gravità, sia suscettibile di scuotere la fiducia del datore di lavoro e di far ritenere che la continuazione del rapporto si risolva in un pregiudizio per gli scopi aziendali, dovendosi ritenere determinante, a tal fine, l’influenza che sul rapporto di lavoro sia in grado di esercitare il comportamento del lavoratore che, per le sue concrete modalità e per il contesto di riferimento, appaia suscettibile di porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento e denoti una scarsa inclinazione ad attuare diligentemente gli obblighi assunti, conformando il proprio comportamento ai canoni di buona fede e correttezza».