La prostituzione “in rete” del prestatore costituisce una giusta causa di licenziamento, in quanto lede l’immagine dell’azienda ed influisce sugli obblighi discendenti dal rapporto di lavoro
Nota a Cass. 22 giugno 2016, n. 12898
Francesco Belmonte
Non ha natura discriminatoria, né diretta né indiretta, tanto meno con riferimento all’orientamento sessuale, il licenziamento intimato ad un dipendente pubblico gay per avere esercitato attività di prostituzione.
Il principio è stato affermato dalla Corte di Cassazione (sentenza 22 giugno 2016, n. 12898) in relazione al recesso intimato ad un prestatore a causa non del suo orientamento sessuale, “bensì della pubblica e riconoscibile attività di prostituzione da egli esercitata su alcuni siti internet; attività chiaramente lesiva del prestigio e dell’immagine della Provincia ed in generale della Pubblica Amministrazione, anche a motivo della visibilità del lavoratore, atteso il ruolo esterno rivestito come istruttore informatico”.
In particolare, il lavoratore offriva, su alcuni siti, prestazioni sessuali a pagamento, “con un annuncio corredato da tariffario, rimborso spese, supplemento per le riprese con telecamere e da fotografie che ne ritraevano il volto”. Tale attività aveva indotto la Provincia, datrice di lavoro, a licenziare il dipendente, in quanto lesiva dell’immagine dell’Ente e idonea a gettare discredito sulla Provincia stessa e su tutta la Pubblica Amministrazione.
In linea con la sentenza impugnata (Corte d’Appello di Torino), la Corte ha ritenuto che il licenziamento in questione fosse qualificabile non come discriminatorio, ma per giusta causa, in quanto dovuto alla condotta riprovevole del dipendente al di fuori dell’attività lavorativa, tale da influire sugli obblighi inerenti al rapporto di lavoro.