Il datore di lavoro risponde delle molestie sessuali del suo dipendente verso una collega quando il comportamento del lavoratore sia riferibile, sia pure marginalmente o indirettamente, alle mansioni in concreto esercitate ed affidategli dal datore di lavoro stesso.
Francesco Belmonte
Nei casi relativi alla condotta sessualmente molesta del dipendente, la giurisprudenza legittima il licenziamento sul presupposto della lesione del rapporto di fiducia nei confronti del lavoratore; lesione tale da far ritenere che la continuazione del rapporto si risolva in un pregiudizio per l’azienda, in quanto le concrete modalità del comportamento ed il contesto di riferimento sono idonei a porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento (sulla lesione del rapporto di fiducia, v., in generale, Cass. 25 giugno 2015, n. 13158; 26 luglio 2010, n. 17514; 22 giugno 2009, n. 14586).
Tuttavia, nell’ipotesi di molestie sessuali sul luogo di lavoro poste in essere da un lavoratore in danno di altro lavoratore, occorre anche verificare se, e in caso affermativo a quale titolo, il datore di lavoro possa essere chiamato a rispondere in termini civilistici per i danni cagionati dalla condotta penalmente illecita del dipendente produttiva di danno a terzi.
La questione non è nuova, ma ha acquisito nuovi impulsi alla luce dell’intensificarsi di fenomeni di molestie e/o condotte abusanti o mobbizzanti realizzate in ambito lavorativo da parte di dipendenti verso altri dipendenti.
Secondo i giudici, si configura una responsabilità dell’imprenditore “in tutti quei casi nei quali la mansione affidata dal datore di lavoro al suo dipendente abbia reso possibile il fatto illecito, collegando, in tal modo, l’esercizio delle incombenze, cui un lavoratore è adibito, e la commissione da parte del datore di lavoro, se non proprio con un nesso di causalità (che non è richiesto dalla uniforme giurisprudenza di questa Corte), quanto meno con un rapporto di occasionalità necessaria”.
Tale rapporto pone in collegamento l’esercizio delle mansioni con l’evento – danno concretamente determinato, “nel senso che l’incombenza (o mansione) disimpegnata dal preposto abbia determinato una situazione tale da agevolare o rendere possibile il fatto illecito e la produzione del danno”.
Può, quindi, affermarsi il principio che, ove il comportamento dell’agente venga ritenuto riferibile, sia pure marginalmente o indirettamente, alle mansioni in concreto esercitate ed affidategli dal datore di lavoro, questi deve essere chiamato a rispondere per fatti illeciti commessi dal dipendente in danno di terzi, mentre quando la condotta sia frutto di una iniziativa estemporanea e personale del tutto incoerente rispetto alle mansioni svolte, “manca quel nesso di occasionalità necessaria che solo può giustificare una attribuzione di responsabilità in capo al datore di lavoro, non potendo rientrare in tale concetto un semplice elemento di collegamento di tipo temporale o spaziale.
In altri termini, solo ove tali incombenze abbiano reso possibile o almeno agevolato il verificarsi dell’illecito può parlarsi di responsabilità a carico del datore di lavoro”.
In un caso esaminato dalla Cassazione (12 luglio 2012, n. 27706), l’organizzazione del lavoro della vittima e del suo aggressore non erano tali da determinare contatti necessari, operando i due dipendenti (molestatore e molestata) in piani diversi (primo e secondo) di un edificio e non al terzo piano in cui era avvenuta la molestia. I due lavoratori, infatti, in relazione alle mansioni svolte in concreto, avrebbero dovuto incontrarsi solo al piano terra, in cui, peraltro, erano presenti altri dipendenti che avrebbero potuto impedire il verificarsi di quella “occasionalità necessaria” che poteva connotare le ipotesi di responsabilità datoriale.
In altri termini, “laddove risulti che il datore di lavoro rispetto alle iniziative autonome assunte dal dipendente e non rientranti nelle incombenze a lui affidate, risulti del tutto estraneo anche indirettamente, nessuna responsabilità può essere ipotizzata a suo carico” (Cass., 22 maggio 2001, n. 6970), né è sufficiente, ai fini della configurabilità della responsabilità del datore di lavoro il mero dato della coincidenza temporo-spaziale con una attività occasionale o favorita dallo svolgimento delle mansioni (Cass. 13 novembre 2001, n. 14096; Cass. 20 giugno 2001, n. 8381).
Il datore di lavoro non può cioè essere chiamato a rispondere di qualsiasi evento produttivo di danno posto in essere dal dipendente, ma solo di quelli commessi nell’ambito dell’incarico affidato al singolo prestatore. D’altra parte grava esclusivamente sull’imprenditore/committente l’obbligo di predisporre modelli organizzativi tali da prevenire la commissione di reati da parte dei dipendenti, “le cui modalità di svolgimento delle singole attività lavorative potrebbero agevolare la commissione del fatto illecito laddove per esempio non siano state adottate tecniche organizzative tale da scongiurare eventi del tipo di quelli all’esame”. E, nel caso di specie, le modalità organizzative adottate dal datore di lavoro erano adeguate, prevedendo l’esclusione di aree isolate e dunque insicure per il lavoratore, “al fine di azzerare possibili rischi di incontri indesiderati e di consequenziali molestie”. su piani diversi di un edificio (piano primo e secondo). La molestia era infatti avvenuta al terzo piano e non nel luogo comune (il piano terra) previsto come obbligatorio per entrambi i lavoratori in relazione alle mansioni svolte in concreto, che obbligavano i due soggetti ad incontrarsi in quel luogo comune (per l’appunto il piano terra), in cui, peraltro, erano presenti altri dipendenti che avrebbero potuto impedire il verificarsi di quella “occasionalità necessaria” che poteva connotare le ipotesi di responsabilità datoriale.