E’ illegittimo perché sproporzionato il licenziamento del lavoratore che scrive con le feci, sui muri della toilette, “a morte i capi”.
Kevin Puntillo
È illegittimo, perché sproporzionato, il licenziamento disciplinare intimato per avere il lavoratore imbrattato una toilette aziendale per scrivere, con l’uso di feci, la frase “A morte i capi”. Lo ha stabilito la Cassazione (25 agosto 2016, n. 17339), la quale ha confermato il giudizio della Corte d’appello di Potenza (6 novembre 2013), di riforma della sentenza di rigetto emessa (il 17 gennaio 2012) dal Tribunale di Melfi, che aveva ordinato la reintegra del prestatore nel posto di lavoro con le conseguenze economiche di cui all’art. 18, L. n. 300/70 (nel testo previgente alla novella di cui all’art. 1, L. n. 92/12).
La Corte di Cassazione ha osservato che, nell’ipotesi di licenziamento disciplinare, il giudice è tenuto a valutare se vi è proporzione fra l’infrazione del lavoratore e la sanzione irrogatagli e, in particolare, deve verificare che l’infrazione contestata sia astrattamente sussumibile sotto la specie della giusta causa o del giustificato motivo soggettivo di recesso (in questa seconda ipotesi, costituendo notevole inadempimento degli obblighi contrattuali).
E’ infatti necessario che la condotta del lavoratore “rivesta il carattere di grave negazione dell’elemento essenziale della fiducia in quanto la condotta sia idonea a ledere irrimediabilmente l’affidamento circa la futura correttezza nell’eseguire la prestazione dedotta in contratto, in quanto sintomatica di un certo atteggiarsi del dipendente rispetto agli obblighi che gli fanno carico” (v., fra le tante, Cass. n. 15058/2015 e Cass. n. 2013/2012).
La gravità della condotta del lavoratore va indagata: a) sia in astratto, rispetto alle previsioni pattizie e alla nozione legale di giusta causa o giustificato motivo; b) sia in concreto, in relazione alle singole circostanze oggettive e soggettive che l’hanno caratterizzata.
In particolare, secondo la giurisprudenza consolidata, occorre tener conto di una serie di connotati, quali, ad esempio, l’intensità del dolo o del grado di colpa; i precedenti disciplinari; ed il danno arrecato.
In questa linea, nella sentenza di merito, confermata dalla Cassazione, i giudici avevano reputato il comportamento del lavoratore non così grave da meritare il licenziamento, in considerazione dello stato di salute psichica del dipendente, del suo modesto livello culturale e dall’assenza di precedenti disciplinari.