Ammissibile il recesso per giusta causa se il “capo” rende intenzionalmente difficoltoso lo svolgimento dell’attività lavorativa.
Nota a Cass., 2 settembre 2016, n. 17539.
Francesco Belmonte
E’ corretto il recesso per giusta causa (con diritto all’indennità sostitutiva del preavviso) dell’agente di commercio, qualora il datore di lavoro manifesti la volontà di estrometterlo dall’azienda, provocandogli disagio nello svolgimento dell’attività lavorativa.
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione (2 settembre 2016, n. 17539) in una fattispecie in cui il lavoratore si era trovato di fronte all’improvvisa ed immotivata impossibilità di «conferire con il proprio datore di lavoro, che anzi aveva cercato di rendergli più difficoltoso l’esercizio delle attività probabilmente non facendogli consegnare il materiale necessario e certamente ordinandogli, senza alcuna richiesta preventiva di consenso, di affiancare i due agenti operanti proprio nelle zone più lontane tra loro, così costringendolo a viaggiare ogni settimana tra il nord e il sud Italia».
Secondo i giudici, inoltre, la volontà di arrecare disagio allo svolgimento della prestazione lavorativa è di rilevante gravità anche tenuto conto dell’importanza del ruolo di capo area dell’Italia orientale, il quale era responsabile di un’attività di coordinamento nella sua autonomia di programmazione e non soggetto a direttive vincolanti.
La Suprema Corte ha anche riaffermato taluni importanti principi di carattere processuale e cioè che:
- l’accertamento del fatto e la valutazione probatoria compiuta dal giudice di merito integrano esercizio di un potere insindacabile dal giudice di legittimità, al quale solo pertiene la facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni del giudice di primo grado, «non equivalendo il sindacato di logicità del giudizio di fatto a revisione del ragionamento decisorio» (Cass. 16 dicembre 2011, n. 27197; Cass. 18 marzo 2011, n. 6288; Cass. 19 marzo 2009, n. 6694);
- il giudice di legittimità ha la facoltà di censurare la sussunzione di uno specifico comportamento del lavoratore nell’ambito della giusta causa (piuttosto che del giustificato motivo di licenziamento), in relazione alla sua intrinseca lesività degli interessi del datore di lavoro (Cass. 18 gennaio 1999, n. 434; Cass. 22 ottobre 1998, n. 10514).
Ciò, in quanto è sindacabile dalla Cassazione l’attività di integrazione del precetto normativo compiuta dal giudice di merito, «a condizione che la contestazione del giudizio valutativo operato in sede di merito non si limiti ad una censura generica e meramente contrappositiva, ma contenga, invece, una specifica denuncia di incoerenza del predetto giudizio rispetto agli standards, conformi ai valori dell’ordinamento, esistenti nella realtà sociale (Cass. 26 aprile 2012, n. 6498; Cass. 2 marzo 2011, n. 5095)». Il controllo di legittimità si deve limitare alla verifica di ragionevolezza della sussunzione del fatto e, quindi, ad un sindacato sul vizio di violazione di norma di diritto ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 3, c. p. c., e non da quello dell’art. 360, co. 1, n. 5, c. p. c. (Cass., S. U. , 18 novembre 2010, n. 23287).
Infatti, «il vizio di violazione o falsa applicazione di norme di diritto, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., ricorre o non ricorre a prescindere dalla motivazione (che può concernere soltanto una questione di fatto e mai di diritto) posta dal giudice a fondamento della decisione (id. est: del processo di sussunzione), per l’esclusivo rilievo che, in relazione al fatto accertato, la norma, della cui esatta interpretazione non si controverte (in caso positivo vertendosi in controversia sulla “lettura” della norma stessa), non sia stata applicata quando doveva esserlo, ovvero che lo sia stata quando non si doveva applicarla, ovvero che sia stata “male” applicata, e cioè a fattispecie non esattamente comprensibile dalla norma (Cass. 15 novembre 2014, n. 26307; Cass. 24 ottobre 2007, n. 22348). Sicchè, il processo di sussunzione, nell’ambito del sindacato sulla violazione o falsa applicazione di una norma di diritto, presuppone la mediazione di una ricostruzione del fatto incontestata; al contrario del sindacato ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 5 c.p.c. (oggetto della recente riformulazione interpretata quale riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione: Cass., S.U., 7 aprile 2014, n. 8053), che invece postula un fatto ancora oggetto di contestazione tra le parti».