L’impresa che licenzia un dirigente non ha l’obbligo di riallocarlo, dal momento che il rapporto di lavoro dirigenziale è caratterizzato da un regime di libera recedibilità.

Nota a Cass. n. 14193/2016

Giovanni Piglialarmi

La società che licenzia uno dei propri dirigenti, per cessazione dell’incarico, non ha l’obbligo di riallocarlo in altre posizioni apicali poiché vale il principio del libero recesso. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione con sentenza n. 14193, pubblicata il 3 marzo del 2016.

Un dirigente di una nota società multinazionale aveva presentato ricorso presso il Tribunale del Lavoro di Pordenone per far accertare e dichiarare l’illegittimità del licenziamento e la violazione dell’obbligo di repêchage.

Il ricorrente aveva convenuto in giudizio una società del gruppo con sede legale in Italia (ove lo stesso prestava effettivamente servizio), sostenendo che con una società del gruppo con sede legale negli Stati Uniti aveva sottoscritto un “memorandum” contenente una clausola di impegno per la società americana di affidargli un nuovo in carico al termine di quello precedente. Da questo accordo, ne sarebbe scaturito l’obbligo di riallocarlo al termine dell’incarico.

Il Giudice di primo grado, dichiarando il difetto di giurisdizione nei confronti della società convenuta statunitense, accertava comunque che il licenziamento poteva ritenersi pretestuoso ed arbitrario non avendo la società italiana convenuta fornito la prova circa l’impossibilità di reperire un nuovo incarico per il ricorrente all’interno del gruppo.

La Corte di Appello di Trieste, in riforma della sentenza di primo grado, dichiarava invece legittimo il licenziamento in quanto il c.d. “memorandum” contenente la clausola della riallocazione era relativo solo al rapporto contrattuale con la società americana. Inoltre, la Corte rilevava che il dirigente non aveva tempestivamente dedotto in quali posizioni la società italiana convenuta poteva riallocarlo, avendo specificato soltanto che “vi era una prassi consolidata all’interno del Gruppo di riallocare il dirigente alla cessazione dell’incarico”.

La questione, sottoposta alla Suprema Corte, è stata risolta tenendo conto di alcuni principi che la giurisprudenza di legittimità ha consolidato nel tempo.

In primo luogo, l’obbligo di repêchage va escluso nei confronti del dirigente in quanto incompatibile con il rapporto di lavoro dirigenziale caratterizzato da un regime di libera recedibilità (v. anche Cass. n. 3175/2013). La sentenza precisa sul punto che in questi casi non possono essere “richiamati i principi elaborati dalla giurisprudenza per la diversa ipotesi del licenziamento per giustificato motivo del non dirigente (Cass. n. 14310/2002; Cass. n. 322/2003; Cass. n. 2266/2007)”.

In secondo luogo, i giudici di legittimità hanno rilevato che la Corte d’Appello aveva giustamente ritenuto il “memorandum” sottoscritto con la società statunitense insufficiente a far nascere l’obbligo di repêchage anche per la società italiana in quanto quest’ultima non lo aveva sottoscritto e non ne era a conoscenza.

 

Licenziamento del dirigente: non c’è l’obbligo di repêchage
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