E’ applicabile anche ai dipendenti pubblici il regime sanzionatorio previsto dalla Fornero.
Nota a Cass. 4 ottobre 2016, n. 19774
Francesco Belmonte
Nei rapporti di lavoro privatizzati alle dipendenze delle Pubbliche Amministrazioni, il recesso datoriale, conseguente all’accertamento medico di inabilità assoluta e permanente del prestatore a qualsiasi proficuo lavoro, non integra una risoluzione automatica del rapporto, ma costituisce un’ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo a cui si applica l’art. 18, L. 20 maggio 1970 (novellato dalla c. d. riforma Fornero), sia per i profili sostanziali che procedurali.
Lo ha stabilito la Cassazione (4 ottobre 2016, n. 19774), la quale ha ritenuto illegittimo il provvedimento di dispensa dal servizio, con effetto immediato, di un dipendente della Regione Lombardia, a seguito di accertamento medico che lo aveva giudicato inabile in modo assoluto e permanente allo svolgimento di qualunque attività lavorativa.
Secondo la Corte, “in linea generale, la forma tipica dei recesso del datore di lavoro è, anche per l’impiego privatizzato, quella del licenziamento, senza che, in difetto di norme speciali, possano trovare ingresso cause di risoluzione automatica del rapporto.”
L’art. 55 octies, D.Lgs. 30 marzo 2011, n. 165 (T. U. sul Pubblico Impiego) prevede la sussistenza di un diritto potestativo di recesso (“l’amministrazione può risolvere il rapporto di lavoro”) da parte dell’Amministrazione nel caso di accertata permanente inidoneità psicofisica del dipendente.
Allo stesso tempo, (v. regolamento attuativo, di cui al D.P.R. 27 luglio 2011, n. 171), “l’Amministrazione esercito il potere che le è attribuito senza vincoli di automatismo, cioè “vagliando, a tutela del proprio interesse, se il procedimento, attraverso il quale la valutazione medica è stata acquisita, corrisponda alle previsioni che presiedono al suo regolare svolgimento, se le sue conclusioni siano adeguatamente motivate o se, invece, non pongano dubbi sulla loro effettiva plausibilità”… e se, infine, “non debba ritenersi opportuno un qualche momento di integrazione e di ulteriore approfondimento.”
Con ciò, l’Amministrazione nel momento in cui opera il licenziamento, agisce, accollandosi il rischio di impresa(come già argomentato dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 420 del 1998), dal momento che il giudice può valutare in modo contrario l’idoneità del dipendente (v. Cass. 25 luglio 2011, n. 16195 e Cass. 8 febbraio 2008 n. 3095). Infatti, il parere della Commissione medica di cui all’art. 1, D.M. 23 febbraio 1999, n. 88 (riguardante il controllo dell’idoneità fisica e psicoattitudinale del personale addetto ai servizi pubblici di trasporto) non è vincolante per l’organo giudicante ai fini dell’accertamento dell’illegittimità del licenziamento disposto a seguito di tale parere, avendo lo stesso il potere di controllare l’attendibilità degli esami sanitari effettuati dalla predetta Commissione.
Nella specie, la Corte ha rilevato come, a seguito della consulenza medico-legale, fosse stata accertata una residua capacità lavorativa del dipendente, tale da non legittimare il recesso ed integrare la fattispecie di cui all’art. 18, co. 7, L. n. 300/70 (che sanziona il licenziamento ingiustificato per motivo oggettivo consistente nell’inidoneità fisica o psichica del lavoratore), con conseguente reintegrazione del dipendente e il pagamento, in suo favore, di un’indennità risarcitoria pari a 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.
La Cassazione ha inoltre fornito dei chiarimenti in merito alla quantificazione del risarcimento previsto dall’art. 18, co. 4, a cui rinvia il co. 7 del medesimo articolo, e che “in ogni caso … non può essere superiore a dodici mensilità” dell’ultima retribuzione globale di fatto.
Muovendo dal presupposto che la disposizione è “palesemente volta a contenere, in talune ipotesi di licenziamento illegittimo, le conseguenze economiche a carico del datore di lavoro, predeterminandone l’ammontare mediante la fissazione di un limite alle mensilità che lo stesso è tenuto a corrispondere al lavoratore”, la Corte ha affermato che il potere del giudice di determinare la misura dell’indennità, mediante un numero maggiore o minore di mensilità, debba tenere conto essenzialmente di due dati essenziali: a) la durata del periodo intercorrente tra il licenziamento e l’effettiva reintegrazione, quale parametro ordinario di liquidazione dell’indennità; b) l‘eventuale percezione, da parte del lavoratore, nella fase di estromissione dal posto di lavoro, di redditi derivanti dallo svolgimento di altre attività lavorative; in quanto detti redditi, ove sussistenti, “devono essere portati in detrazione dall’indennità.”