Dopo l’astensione per maternità la lavoratrice ha diritto di rientrare nella originaria unità produttiva.
Nota a Cass. 30 giugno 2016, n. 13455.
Camilla Fazio
La lavoratrice, al termine del periodo di astensione obbligatoria per maternità, ha diritto di conservare il posto dl lavoro e, salvo rinunzia espressa, di rientrare nella medesima unità produttiva ove era occupata all’inizio del periodo digravidanza o in altra ubicata nel medesimo comune (art. 56, co. 1, D.Lgs. n. 151/2001).
Il principio è stato ribadito dalla Cassazione (30 giugno 2016, n.13455), che ha ritenuto illecito il licenziamento per giusta causa per assenza ingiustificata di una lavoratrice che, al ritorno dal congedo obbligatorio di maternità, non si era recata presso la diversa unità produttiva alla quale l’impresa l’aveva assegnata ed aveva più volte manifestato la propria volontà di rientrare nell’unità produttiva presso cui prestava il proprio lavoro all’inizio del periodo di gravidanza.
La Cassazione, ha precisato che il D.Lgs. n. 151/2001, in attuazione dei principi contenuti negli artt. 31 e 37 Cost. e della Direttiva CE n. 85 del 1992, “prevede un articolato e complesso insieme di garanzie e diritti volti ad assicurare l’essenziale funzione familiare della donna e rispondenti all’esigenza di tutela della maternità (ora, in senso più lato, della genitorialità)”; inoltre, “la peculiare natura dei valori così protetti e la preminenza dai medesimi rivestita nell’ordinamento è priva di riflessi nella dimensione attuativa del rapporto, richiedendo o legittimando, alla stregua dei canoni di correttezza e buona fede, tutti quei comportamenti, sia di segno positivo che negativo, e anche non strutturalmente riconducibili ad un facere, che possano cooperare alla loro attuazione”.
La Suprema Corte ha, pertanto, rilevato che un possibile uso “distorto” del trasferimento di una dipendente da una sede ad un’altra, si può tradurre in uno strumento volto a “dissuadere” la lavoratrice alla prosecuzione del rapporto di lavoro, chiarendo che, contrariamente a quanto avviene con un comune trasferimento (che, come noto, non richiede il consenso del lavoratore e che, in caso di rifiuto, espone il lavoratore ad un licenziamento legittimo), il rifiuto di trasferimento in altra sede della lavoratrice madre, e fino ai primi 12 mesi di vita del figlio, rappresenta impedimento legittimo tutelato dalla legge anche costituzionalmente.
In questa linea, v., già, App. Torino 29 giugno 2010, in GM, 2011,2633, con nota di ENRICHEN, MANASSERO, secondo cui “il demansionamento e l’ingiustificato trasferimento ad altra sede più disagiata della lavoratrice rientrata dal periodo di congedo per maternità comportano la violazione della disciplina antidiscriminatoria”; e App. Milano 6 agosto 2012, in RCDL, 2012, 735, con nota di CORRADO, secondo cui “ai sensi dell’art. 56 D. Lgs. 26 marzo 2001 n. 151, la lavoratrice madre, al termine del periodo di congedo per maternità, ha diritto di rientrare nella stessa unità produttiva ove era occupata all’inizio del periodo di gravidanza; la chiusura e il trasferimento in altra città dell’unità in cui la lavoratrice è adibita non ne giustifica la sospensione dalla retribuzione in applicazione analogica dell’art. 54, 4° comma, D. Lgs. 26 marzo 2001 n. 151, quando risulti che l’attività è continuata in altra città”. App. Torino 1 agosto 2010, in RCDL, 2011, 199, con nota di BALESTRO, ha peraltro ritenuto che, “qualora sia accerta la sussistenza di una discriminazione diretta nei confronti della lavoratrice madre, per violazione dell’art. 56 D.Lgs. 26 marzo 2011, n. 151 e dell’art. 2013 c.c., la mancata presentazione al lavoro dopo un periodo di malattia conseguente all’illegittimo demansionamento si configura come legittima eccezione di inadempimento ai sensi dell’art. 1460 c.c. e non può configurare una giusta causa di licenziamento”.