E’ legittima e non giustifica il licenziamento una manifestazioni di protesta-denuncia, pur aspra, macabra e sarcastica, nonché rispondente ad un criterio non di verità assoluta, ma soltanto soggettiva
Carmine Ambrosio
Inscenare il suicidio dell’Amministratore delegato costituisce espressione del libero esercizio del diritto di critica dei lavoratori e non rappresenta un inadempimento sanzionabile con il licenziamento.
Il principio è stato affermato dalla Corte di Appello di Napoli (27 settembre 2016) in relazione ad una fattispecie relativa ad un gruppo di lavoratori che (per protestare contro il trasferimento, avvenuto nel maggio del 2008, di 316 dipendenti dallo stabilimento di Pomigliano ad un fittizio reparto sito presso l’interporto di Nola, con successiva messa in cassa integrazione a zero ore degli stessi ed il conseguente suicidio di 2 di loro causato da una menomazione dello stato psichico dovuto alla precarietà della loro condizione lavorativa), avevano allestito, nell’area antistante la propria azienda, un manufatto di legno riproducente un patibolo dotato di cappio che stringeva al collo un manichino penzolante, a grandezza naturale, e raffigurante l’Amministratore delegato della Fiat, dott. Sergio Marchionne, del quale veniva simulata l’impiccagione.
I lavoratori, inoltre, avevano affisso sul palo verticale del patibolo un manifesto raffigurante il viso dell’Amministratore delegato, sul quale era impresso il seguente testo: “Il mio lascito prima del mio ultimo respiro: preso atto del mio piano fallimentare, chiedo agli Agnelli, ai politici ed ai sindacati: quelli che verranno dopo di me, se ci sarà la conduzione manageriale F.C.A., spero siano attenti non solo al profitto, ma al benessere dei lavoratori licenziati e cassaintegrati; inoltre chiedo, come atto di clemenza, la riassunzione di tutti i 316 deportati a Nola allo stabilimento di Pomigliano. Chiedo perdono per le morti che io ho provocato. Sergio Marchionne”.
Nel contempo, i dipendenti dell’azienda avevano provveduto a posizionare, sul suolo adiacente il patibolo, diversi indumenti di lavoro, in dotazione ai dipendenti Fiat, cosparsi di vernice color rosso al fine di simulare macchie di sangue; ed avevano allestito la medesima rappresentazione dinanzi all’ingresso della sede regionale Rai. Successivamente, avevano collocato dinanzi all’ingresso dello stabilimento di Pomigliano d’Arco, oltre agli indumenti colorati di vernice rossa, un vecchio baule, contenente un manichino identico a quello già utilizzato, circondandolo di lumini funebri e simulando il funerale dell’Amministratore.
Tale condotta, chiaramente intenzionale, ha posto la questione se una siffatta protesta contro le politiche aziendali costituisse legittima manifestazione del diritto di critica o se fosse configurabile una violazione degli obblighi di diligenza e fedeltà nei confronti del datore di lavoro. Ciò, anche alla luce di quanto stabilito dall’art. 32, ccnl metalmeccanici del 2011, che ammette il licenziamento in tutti i casi in cui il lavoratore “provochi alla azienda grave nocumento morale o materiale (norma da intendersi, quindi, come riferita anche ad attività extralavorative, ma incidenti sul rapporto di lavoro) o che compia in connessione con lo svolgimento del rapporto di lavoro azioni che costituiscono delitti a termine di legge”.
L’esercizio legittimo del diritto di critica riconosciuto dall’art. 21 Cost. e ribadito, con riguardo ai luoghi di lavoro, dall’art. 1, Stat. Lav., deve rispettare, secondo l’orientamento dottrinale e giurisprudenziale consolidato (v. Cass. 10 dicembre 2008, n. 29008; Cass. 21 marzo 2016, n. 5523, con nota di F. ALBINIANO, Criticare l’impresa oltre i limiti consentiti configura giusta causa di licenziamento, in questo Blog) il principio di “continenza sostanziale”, secondo cui i fatti alla base della manifestazione critica devono essere veritieri, ed il principio di “continenza formale”, per il quale il contenuto della critica deve essere espresso senza ledere il decoro e l’immagine del datore di lavoro, anche al fine di non provocargli un danno economico in termini di perdita di commesse e di occasioni di lavoro.
Secondo la Corte di Appello di Napoli, la condotta esaminata non esorbita dal legittimo diritto di critica, in quanto il dissenso manifestato dai lavoratori rispetto alle strategie aziendali costituisce una mera valutazione soggettiva e generica, al pari del discorso sui “316 lavoratori deportati”.
In particolare, sotto il profilo della continenza sostanziale, tale comportamento, anche se evoca una evidente critica circa le ragioni del trasferimento “non trasmoda dal legittimo esercizio del diritto di critica anche perché il collocamento dei 316 dipendenti è un fatto obiettivamente verificatosi, cosi come non è in contestazione che i predetti lavoratori (tra cui vanno ricompresi 4 degli attuali ricorrenti) sono ininterrottamente sospesi dal lavoro dal 2008; anche il monito, rivolto agli eventuali successori dell’attuale Amministratore delegato, dott. Sergio Marchionne, di non pensare solo al profitto, ma anche al benessere dei lavoratori, rappresenta una legittima estrinsecazione della libertà di valutazione e critica dell’altrui operato e comunque trattasi sempre di una valutazione del tutto soggettiva degli attuali reclamanti che lascia il tempo che trova (in generale la critica si risolve in una interpretazione di fatti, di comportamenti e di opere dell’uomo e, per sua natura, non può essere che soggettiva, cioè corrispondente al punto di vista di chi la manifesta)”.
Inoltre, secondo i giudici, l’accusa di sostanziale addebito all’Amministratore delegato di strategie aziendali sbagliate in tema di lavoro e tutela dei lavoratori, pur non rispondendo al criterio della verità assoluta (mancando la prova obiettiva e certa del collegamento diretto tra opzioni aziendali ed il tragico gesto compiuto dai 2 cassaintegrati), “risponde al criterio della verità soggettiva dei reclamanti, che non può dirsi fondata solo su una loro personale convinzione, né inventata di sana pianta, dal momento che uno dei dipendenti morto suicida aveva lasciato uno scritto nel quale attribuiva tale tragica scelta alla propria condizione lavorativa”.
Quanto al principio di continenza formale, per la Corte, la rappresentazione scenica realizzata, sebbene “macabra, forte, aspra e sarcastica”, non ha travalicato i limiti di continenza formale del “diritto di svolgere, anche pubblicamente, valutazioni e critiche delle operato altrui, che in una società democratica deve essere sempre garantito”. I giudici hanno infatti evidenziato il particolare “problematico e doloroso contesto” in cui sono avvenuti i fatti addebitati ai lavoratori i quali, sull’onda della protesta e del malcontento, turbati dal suicidio della collega, mediante la rappresentazione scenica realizzata, hanno inteso, “non certo denigrare o diffamare l’Amministratore delegato della società, offendendo il suo onore e la sua immagine pubblicamente, ma porre ancora una volta la stessa all’attenzione della società datrice di lavoro e della collettività per cercare di trovare una soluzione”. Circa poi la “durezza della rappresentazione scenica, definita “cruenta ed evocatrice di violenza”, il collegio ha rilevato che anche tale scelta era “indubbiamente da ricollegare proprio alle modalità utilizzate dai colleghi per togliersi la vita”; sicché la rappresentazione delle maglie sporche di vernice rossa rappresentava una prova evidente della loro “immedesimazione emotiva”. Né la manifestazione scenica del finto suicidio (e non omicidio) dell’Amministratore delegato costituiva istigazione alla violenza o espressione offensiva, sconveniente o eccedente, tale da creare grave nocumento morale all’azienda ed alla persona del suo Amministratore delegato (danno, peraltro, non provato).
In questo quadro, secondo la Corte non sembra configurabile una giusta causa di licenziamento poiché il comportamento tenuto dai lavoratori, “avuto riguardo a tutte le circostanze del caso concreto, e dello stato psicologico in cui versavano al momento dell’accadimento dei fatti contestati, ivi compresa, altresì, la circostanza che la prestazione lavorativa degli impugnanti era da tempo sospesa, non può reputarsi integrare neppure una ipotesi di violazione degli obblighi posti alla base del rapporto di lavoro, incidente negativamente sullo svolgimento dell’attività lavorativa e sul vincolo fiduciario ex art. 2119 c.c., in modo tale da costituire giusta causa di licenziamento”.