Il tempo necessario ad indossare gli indumenti da lavoro (c.d. tempo tuta) rientra nell’orario lavorativo e va retribuito soltanto quando la scelta del tempo e del luogo di vestizione è sottoposta al potere direttivo del datore di lavoro
Maria Novella Bettini
Il c.d. tempo tuta, secondo l’orientamento prevalente della Cassazione, rientra nell’orario di lavoro quando l’attività di vestizione del prestatore di lavoro risulta «eterodiretta» dal datore di lavoro, sulla base di specifiche disposizioni contrattuali, collettive od individuali.
Così, se le norme contrattuali attribuiscono al datore di lavoro un potere direttivo tale che gli consenta di determinare il «tempo» e il «luogo» dove indossare la divisa aziendale, senza che residui alcun margine di autonomia decisionale per il prestatore di lavoro, il tempo tuta rientra nell’orario di lavoro e, come tale, va retribuito. In questo caso, infatti, il lavoratore è obbligato alla vestizione sul luogo di lavoro, secondo condizioni e limiti stabiliti dal datore di lavoro e la relativa operazione va necessariamente retribuita in quanto si manifesta come attività strumentale ed ausiliaria al corretto svolgimento dell’attività lavorativa. Nel momento cioè in cui il lavoratore entra in azienda e, subito dopo, indossa la divisa secondo le direttive del datore, si realizzano, contemporaneamente, le tre condizioni necessarie per configurare la nozione di orario di lavoro (art. 1, co. 2, lett. a), D.Lgs. n. 66/2003): il lavoratore “è sul luogo di lavoro”, “nell’esercizio della sua attività e delle sue funzioni” ed è “a disposizione del datore di lavoro”.
Per altro verso, il “tempo tuta” non rienta nell’orario di lavoro e non va retribuito quando il datore non ha il potere di scegliere tempo e luogo della vestizione. In particolare, laddove sia data facoltà (non al datore di lavoro bensì) al lavoratore di scegliere il tempo e il luogo ove indossare la divisa stessa (anche presso la propria abitazione, prima di recarsi al lavoro), la relativa attività fa parte degli atti di diligenza preparatoria («attività prodromica alla prestazione lavorativa») allo svolgimento dell’attività lavorativa, e, come tale, non deve essere retribuita. In tale ipotesi, il tempo occorrente per adempiere l’obbligo di indossare la tuta non si tramuta in attività retribuibile, atteso che l’inizio della prestazione lavorativa può essere individuato solo nel momento in cui inizia la soggezione al potere gerarchico e direttivo del datore di lavoro che, in questa ipotesi, difetta, potendo il dipendente concretamente scegliere i tempi e modi per indossare la divisa aziendale.
Tale principio è stato di recente ribadito dalla Cassazione (14 novembre 2016, n, 23123), secondo la quale la normativa vigente (D.Lgs. 8 aprile 2003, n. 66, di attuazione delle direttive 93/104/CE e 2000/34/CE) non preclude che “il tempo impiegato per indossare la divisa sia da considerarsi lavoro effettivo, e debba essere pertanto retribuito, ove tale operazione sia diretta dal datore di lavoro, il quale ne disciplina il tempo ed il luogo di esecuzione, ovvero si tratti di operazioni di carattere strettamente necessario ed obbligatorio per lo svolgimento dell’attività lavorativa” (nello stesso senso, v. Cass. 25 giugno 2009, nn. 14919 e 15492; Cass. 10 settembre 2010, n. 19358, in FI, 2011, I, 1394; Cass. 7 giugno 2012 n. 9215; Cass. 8 febbraio 2012, n. 1817, in ADL, 2012, 737, con nota di FONTANA, La nozione di orario di lavoro e la questione della retribuibilità del cosiddetto “tempo tuta”).
Occorre, infatti, “distinguere nel rapporto di lavoro una fase finale, che soddisfa direttamente l’interesse del datore di lavoro, ed una fase preparatoria, relativa a prestazioni od attività accessorie e strumentali, da eseguire nell’ambito della disciplina d’impresa (art. 2104 c. c., co. 2) ed autonomamente esigibili dal datore di lavoro, il quale, ad esempio, può rifiutare la prestazione finale in difetto di quella preparatoria. In definitiva, il tempo necessario a indossare l’abbigliamento di servizio costituisce tempo di lavoro soltanto ove qualificato da una etero direzione. In difetto di direttive specifiche in tal senso, l’attività di vestizione rientra nella diligenza preparatoria inclusa nell’obbligazione principale del lavoratore e non dà titolo ad autonomo corrispettivo”. Inoltre, un eventuale scostamento orario tra la timbratura e l’orario del turno va collegato all’attività preparatoria della prestazione e, in assenza di prova di una espressa disposizione aziendale, tale attività preparatoria non postula un ulteriore corrispettivo.
Nella fattispecie esaminata dalla Corte, il dipendente, infermiere professionale, prima di accedere al turno di servizio era tenuto ad indossare la divisa (nei locali a ciò destinati in prossimità dell’unità operativa di assegnazione all’interno dell’area ospedaliera), che poi doveva dismettere a fine turno, lasciandola per il lavaggio nei cesti allo scopo collocati in azienda; e non era stata offerta la prova che al lavoratore fosse richiesto di entrare in anticipo rispetto al turno di servizio ed uscire con ritardo rispetto alla scadenza del turno stesso per potere indossare gli abiti da lavoro.
Più specificamente, la Corte territoriale, aveva accertato che:
“a. – le attività di vestizione e svestizione erano effettuate nel tempo compreso tra la timbratura in entrata e quella in uscita (e dunque nell’orario di lavoro);
- – che non era stata offerta la prova del fatto che per l’adempimento di tale incombente l’azienda avesse imposto al lavoratore di provvedervi al di fuori del turno di servizio;
- – che le direttive aziendali si limitavano ad imporre di indossare la divisa successivamente all’entrata ed a dismetterla prima dell’uscita dal servizio;
- – che il tempo impiegato per indossare e dismettere la divisa era stato regolarmente retribuito;
- – che dai cartellini marcatempo si evinceva che nella maggior parte dei casi l’ingresso e l’uscita coincidevano con l’orario di lavoro previsto nei vari turni;
- – che l’esubero di orario collegato alla prestazione di lavoro straordinario o ad altri ordini di servizio era stato sempre regolarmente retribuito”.