Il rinvenimento di materiale pornografico sul disco rigido del computer aziendale, subito resettato dal dipendente, legittima il licenziamento.
Nota a Cass. 3 novembre 2016, n. 22313
Kevin Puntillo
E’ licenziabile il lavoratore che conserva, sul computer aziendale, files e materiale pornografico rilevati a seguito di ispezione aziendale e che tenta di occultarli procedendo alla cancellazione dell’intero disco rigido.
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione (3 novembre 2016, n. 22313), cassando con rinvio quanto precedentemente deciso dalla Corte di merito, che aveva rilevato l’illegittimità del licenziamento intimato da una banca al proprio dipendente. Il fatto muoveva a seguito di contestazione disciplinare con la quale si riferiva che, durante un’ispezione per la verifica del rispetto delle disposizioni interne in materia di uso e sicurezza degli strumenti di lavoro, venivano rinvenuti nel disco rigido di un computer aziendale alcuni files con estensione video “non pertinenti” e, successivamente alla richiesta di chiarimenti, il dipendente “resettava” l’intero contenuto del disco, rendendo impossibile dar seguito all’attività ispettiva.
All’esito di un successivo esame dell’archivio informatico, era emerso, tuttavia, che tali files costituivano materiale pornografico. Così, la Banca intimava il licenziamento contestando al lavoratore:
- di aver ostacolato l’attività ispettiva;
- di avere violato l’obbligo di tenere una condotta informata ai principi di disciplina, dignità e moralità, sia in sede di effettuazione delle attività di controllo, sia acquisendo e conservando nel computer aziendale materiale pornografico;
- di avere violato l’obbligo di dedicare il suo tempo lavorativo all’attività aziendale;
- di avere violato il codice disciplinare, che prescrive ai dipendenti di utilizzare le apparecchiature esclusivamente per finalità di ufficio;
- di aver esposto la banca ai rischi conseguenti l’acquisizione nel proprio sistema informatico di files “dannosi” anche per sé stessa, soprattutto ove il materiale fosse pedopornografico.
La Corte territoriale aveva ritenuto il licenziamento illegittimo per insussistenza del fatto contestato, considerato che la banca non aveva dimostrato l’esistenza di documenti di pertinenza aziendale all’interno della parte del disco fisso del computer, cancellata dal lavoratore, e che gli ispettori avevano travalicato i propri poteri, imponendo al lavoratore l’immediata visione dei files, con richiesta abusiva perché sproporzionata e lesiva della privacy.
La Corte di Cassazione, chiamata a pronunciarsi, ha preliminarmente rilevato, però, che il motivo non attiene alla materia dei c.d. controlli a distanza disciplinati dall’art. 4 Stat. Lav., né all’utilizzo dei dati desunti dal computer aziendale, ma del controllo da parte del datore di lavoro sull’utilizzo dello strumento presente sul luogo di lavoro e in uso al lavoratore per lo svolgimento della prestazione. In merito, infatti, la Cassazione ha ribadito che “il datore di lavoro può effettuare dei controlli mirati (direttamente o attraverso la propria struttura) al fine di verificare il corretto utilizzo degli strumenti di lavoro (cfr. artt. 2086, 2087 e 2104 c.c.), tra cui i p.c. aziendali. Nell’esercizio di tale prerogativa, occorre tuttavia rispettare la libertà e la dignità dei lavoratori, nonché, con specifico riferimento alla disciplina in materia di protezione dei dati personali dettata dal D.Lgs. n. 196/2003, i principi di correttezza (secondo cui le caratteristiche essenziali dei trattamenti devono essere rese note ai lavoratori), di pertinenza e “non eccedenza”, tenuto conto che tali controlli possono determinare il trattamento di informazioni personali, anche non pertinenti, o di dati di carattere sensibile.
Premesso ciò, la Corte ha stabilito, inoltre, che in tali ipotesi è imprescindibile il controllo fattuale in ordine alle concrete modalità con cui l’ispezione viene condotta, al fine di verificare la conformità o meno delle attività e delle richieste degli ispettori ad eventuali policy aziendali.