La simulazione fraudolenta della malattia legittima il licenziamento del dipendente “furbettino”, scoperto da investigatori privati del datore di lavoro.
Nota a Cass. 16 agosto 2016, n. 17113
Kevin Puntillo
“Le certificazioni mediche possono essere contestate dal datore di lavoro attraverso la valorizzazione di ogni circostanza di fatto volta a dimostrare l’insussistenza dalla malattia o quantomeno uno stato di incapacità lavorativa tale da giustificare l’assenza”.
È questo il principio espresso dalla Corte di Cassazione, con sentenza 16 agosto 2016, n. 17113, chiamata a pronunciarsi sul caso di un licenziamento per giusta causa intimato ad un dipendente per simulazione fraudolenta del suo stato di malattia, nonostante l’assenza giustificata fosse stata comprovata da un certificato medico attestante una lombalgia.
Il datore di lavoro, attraverso l’utilizzo di un’agenzia di investigazione privata, ha addotto il compimento, da parte del lavoratore stesso, di condotte incompatibili con la dichiarata patologia. E la Suprema Corte ha ribadito il principio secondo cui qualora, sulla base di elementi oggettivi, la patologia si riveli inesistente o non in contrasto con il regolare svolgimento della prestazione lavorativa, il certificato medico perde di valore.
In altri termini, i datori di lavoro possono contestare i certificati sanitari prodotti dai lavoratori non solo con accertamenti medici “contrari”, ma anche basandosi su elementi di fatto. Essi possono cioè legittimamente investigare, anche attraverso apposite agenzie, sulle condotte dei propri dipendenti estranee allo svolgimento dell’attività lavorativa, se vi è il sospetto che tali condotte possono influenzare in maniera negativa l’adempimento della prestazione dedotta in contratto.
Secondo la Cassazione, gli artt. 2 e 3, L. n. 300/1970, che delimitano (a tutela della libertà e dignità del lavoratore) la sfera di intervento di persone preposte dal datore di lavoro a difesa dei propri interessi – e cioè per scopi di tutela del patrimonio aziendale (art. 2) e di vigilanza dell’attività lavorativa (art. 3) – non precludono il potere dell’imprenditore né di ricorrere, direttamente o mediante la propria organizzazione gerarchica, alla collaborazione di soggetti (come, nella specie, un’agenzia investigativa) diversi dalla guardie particolari giurate per la tutela del patrimonio aziendale, né di controllare l’adempimento delle prestazioni lavorative e quindi di accertare mancanze specifiche dei dipendenti, ai sensi degli artt. 2086 e 2104 c.c.
Ciò purché il suddetto controllo si limiti agli atti illeciti del lavoratore (che siano perpetrati o “anche in ragione del solo sospetto o della mera ipotesi che siano in corso di esecuzione”) non riconducibili al mero inadempimento dell’obbligazione.
E’ infatti escluso che la vigilanza delle guardie particolari giurate, o di un’agenzia investigativa, riguardi l’adempimento ovvero l’inadempimento dell’obbligazione contrattuale del lavoratore.
In altre parole, “tali agenzie per operare lecitamente non devono sconfinare nella vigilanza dell’attività lavorativa vera e propria, riservata, dall’art. 3 dello Statuto dei Lavoratori, direttamente al datore di lavoro e ai suoi collaboratori. Né a ciò ostano sia il principio di buona fede sia il divieto di cui all’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori, ben potendo il datore di lavoro decidere autonomamente come e quando compiere il controllo, anche occulto, ed essendo il prestatore d’opera tenuto ad operare diligentemente per tutto il corso del rapporto di lavoro”.
In sintesi, nello specifico caso di specie, il controllo finalizzato all’accertamento dell’illecita simulazione della malattia deve ritenersi legittimo, in quanto effettuato al di fuori dell’orario di lavoro ed in fase di sospensione dell’obbligazione principale di rendere la prestazione lavorativa, con conseguente legittimità del licenziamento intimato. In particolare, “controllare” il dipendente assente per malattia è ammesso anche se la commissione di atti illeciti o comunque irregolari è solo sospettata.