Lo scarso rendimento alla base del licenziamento per giustificato motivo soggettivo presuppone un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del lavoratore rispetto alla prestazione attesa dal datore, mentre quello alla base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo si legittima alla luce della perdita totale dell’interesse del datore di lavoro alla prestazione.
Michela Santucci
A distanza di pochi mesi, la Suprema Corte è intervenuta con due distinte sentenze in tema di scarso rendimento del lavoratore, da un lato ribadendo i criteri di articolazione dell’onere probatorio gravante sul datore di lavoro, dall’altro tracciando i confini con le contigue ipotesi integranti giustificato motivo oggettivo di licenziamento.
Così, con sentenza 19 settembre 2016 n. 18317, la Cassazione ha respinto il ricorso dell’azienda condannata a reintegrare il lavoratore in quanto, ai fini della legittimità del recesso, non è sufficiente il mancato raggiungimento del risultato atteso, ma è necessario dimostrare la negligenza nell’espletamento delle mansioni.
Ancora una volta, quindi, la giurisprudenza esige la prova dell’elemento soggettivo della condotta (violazione colposa degli obblighi contrattuali) ritenendo essenziale non tanto il conseguimento di quanto prestabilito nel contratto, quanto piuttosto il corretto espletamento delle mansioni assegnate.
Tale correttezza va valutata in concreto, comparando quanto effettivamente realizzato dal lavoratore sia con gli obiettivi fissati, sia con la produttività dei colleghi adibiti a mansioni analoghe.
La rilevante sproporzione tra i predetti fattori integra giustificato motivo soggettivo di licenziamento, divenendo la prestazione inidonea a soddisfare l’interesse dell’impresa.
Si conferma, quindi, l’inquadramento della fattispecie nell’ambito del licenziamento disciplinare afferendo lo scarso rendimento alla condotta negligente del lavoratore che cagiona un danno di natura economica al datore di lavoro.
Con successiva sentenza 22 novembre 2016, n. 23735, la Cassazione ha affermato che il licenziamento per scarso rendimento intimato per “mancanza di adeguamento alle esigenze (comportamentali, valutative, ecc.) che la evoluzione del mercato comporta” nonché per “mancanza di adeguamento alle attuali esigenze del… settore”, qualora tale adeguamento sia stato “sollecitato” dall’azienda, evidentemente quale prestazione esigibile del dipendente, ascrive la ragione del recesso al paradigma concettuale del rimprovero per una condotta del lavoratore che questi, pur potendo, non ha colpevolmente tenuto e, conseguentemente, alla sfera del licenziamento per giustificato motivo soggettivo.
Secondo la Corte, “un difetto di intensità della prestazione individuabile come scarso rendimento” è suscettibile di essere qualificato al tempo stesso sia come giustificato motivo oggettivo sia come notevole inadempimento. Tuttavia, occorre non invadere, in virtù di un mero atto di autoqualificazione del datore, l’area del giustificato motivo oggettivo con casi che, pur appartenendo naturalmente all’area della giusta causa o del giustificato motivo soggettivo, non abbiano valenza risolutoria sotto questo aspetto.
Così, “il datore di lavoro che intenda fare valere lo scarso rendimento, quale giustificato motivo soggettivo di licenziamento, ai sensi dell’art. 3 L. n. 604 del 1966, non può limitarsi a provare il mancato raggiungimento del risultato atteso ed eventualmente la sua oggettiva esigibilità, essendo onerato della dimostrazione di un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del lavoratore (ossia di un inadempimento rispetto alla prestazione attesa dal datore, comunque ascrivibile alla sfera volitiva del dipendente), quale fatto complesso alla cui valutazione deve concorrere anche l’apprezzamento degli aspetti concreti” (Cass. 10 novembre 2000, n. 14605; 19 agosto 2000, n. 11001).
Diversamente, la rilevanza dello scarso rendimento ai fini del licenziamento per giustificato motivo oggettivo “può essere riconosciuta solo ove cagioni la perdita totale dell’interesse del datore di lavoro alla prestazione, all’esito di un’indagine condotta alla stregua di tutte le circostanze della fattispecie concreta, compreso fra queste il comportamento del datore di lavoro, per accertare se il medesimo, obbligato non solo al pagamento della retribuzione ma anche a predisporre i mezzi per l’esplicazione dell’attività lavorativa, si sia o meno attivato per prevenire o rimuovere situazioni ostative allo svolgimento della prestazione lavorativa”.
E’ questo il caso di circostanze oggettive idonee a determinare la perdita di interesse del datore di lavoro alla prestazione (cosi, anche Cass.n.3250/2003) ed estranee alla sfera volitiva del soggetto, tali da non poter configurare, nella sostanza, un inadempimento comunque imputabile, come, ad esempio, la sopravvenuta inidoneità per infermità fisica, la carcerazione (Cass.n.12721/2009), il ritiro della patente o la sospensione delle autorizzazioni amministrative (Cass.nn.6362/2000 e 13986/2000), nonché la mancanza del titolo professionale abilitante (Cass. n. 25073/2013).