Il datore di lavoro, in caso di violazione delle norme poste a tutela dell’integrità fisica del lavoratore, è responsabile dell’infortunio del proprio dipendente e non può invocare il concorso di colpa del danneggiato, avendo egli il dovere di proteggerne l’incolumità nonostante la sua imprudenza o negligenza
Alfonso Tagliamonte
In caso di violazione delle norme poste a tutela dell’integrità fisica del lavoratore (ex art. 2087 c. c., art. 10, co. 3, D.P.R. n. 1124/1965 e art. 12, co. 3, D.P.R. n. 164/1956), il datore di lavoro è interamente responsabile dell’infortunio che ne sia conseguito e non può invocare il concorso di colpa del danneggiato, avendo egli il dovere di proteggerne l’incolumità nonostante la sua imprudenza o negligenza. Sicché, la condotta imprudente del lavoratore, attuativa di uno specifico ordine di servizio, integrando una modalità dell’iter produttivo del danno “imposta” dal regime di subordinazione, deve essere addebitata al datore di lavoro, il quale, con l’ordine di eseguire un’incombenza lavorativa pericolosa, determina l’unico efficiente fattore causale dell’evento dannoso (Cass. e n. 1994/2012).
Il principio è stato affermato dalla Cassazione (5 dicembre 2016, n. 24798), la quale ha anche ribadito che, in materia di responsabilità dell’imprenditore ai sensi dell’art. 2087 c. c., gli effetti della conformazione della condotta del prestatore ai canoni stabiliti dall’art. 2104 c. c., coerentemente con il livello di responsabilità proprio delle funzioni e a motivo del soddisfacimento delle ragioni dell’impresa, non integrano mai una colpa del lavoratore (Cass. n. 9945/2014).
La Corte ha riformato la sentenza di secondo grado con la quale alla responsabilità della società datrice di lavoro, per l’infortunio occorso al proprio dipendente, era stato affiancato il concorso di colpa del lavoratore (in misura del 15%) per aver contravvenuto, accettando i compiti di collaborazione richiesti, all’obbligo di osservare le misure di sicurezza predisposte dal datore, in violazione dell’art. 6, D.P.R. n. 547/1955,. In concreto, infatti, il dipendente era rimasto schiacciato tra il braccio di un escavatore e un tubo in cemento già posizionato durante l’esecuzione di lavori di sistemazione dei tubi per il convogliamento delle acque di un fiume. Tale attività, se pur esulava dalla sua normale mansione di autista, gli era stata affidata dal direttore dei lavori (condannato per lesioni colpose gravissime), nominato dall’impresa appaltatrice, il quale lo aveva incaricato di svolgere tali attività nella fase di inoperatività delle funzioni di autista.
Secondo i giudici, inoltre, l’eventuale rifiuto opposto dal lavoratore all’ordine impartito dal direttore dei lavori avrebbe dovuto considerarsi legittimo (Cass. n. 6631/2015), non determinando, come invece erroneamente ritenuto dalla Corte territoriale, una responsabilità concorrenziale, atteso che detto rifiuto costituisce una legittima facoltà e non una scriminante della sua responsabilità.
Il Testo Unico in materia di sicurezza sul lavoro (D.Lgs. n. 81/2008), non vigente all’epoca dei fatti trattati in sentenza, ha in gran parte confermato l’orientamento della Cassazione in commento, da un lato, puntualizzando in maniera più stringente gli obblighi del lavoratore (art. 20), e, dall’altro, ampliando la responsabilità del datore di lavoro (v., in particolare, art. 18, co. 1, lett. f), con il quale si impone all’imprenditore di far rispettare le regole di cautela da parte del lavoratore e art. 18, co. 3 bis, che delinea un vero e proprio dovere di vigilanza in capo all’imprenditore ed al dirigente preposto sull’adempimento degli obblighi previsti a carico dei lavoratori stessi).