La dimostrazione di atti violenti fra lavoratori, tali da legittimare il licenziamento, è a carico del datore di lavoro. Gli insulti che si concretizzano in gesti violenti legittimano il licenziamento. Il rifiuto di eseguire le direttive del superiore gerarchico può non costituire motivo legittimo di licenziamento.
Maria Novella Bettini e Kevin Puntillo
Diverbio violento. È stato ritenuto illegittimo il provvedimento espulsivo (con conseguente reintegrazione del dipendente ex art.18 Stat. Lav. nella versione anteriore alla L. n. 92/2012, c.d. Riforma Fornero) adottato nei confronti di un lavoratore (operaio di II livello del ccnl imprese di pulizia) per aver partecipato ad un «violento diverbio con un collega poi seguito da vie di fatto» (App. Milano 24 aprile 2013).
Ciò, sul presupposto che il datore di lavoro non aveva provato il fatto storico addebitato sotto il duplice profilo della materialità e dell’intenzionalità della condotta.
In effetti, i testimoni, pur confermando l’avvenuta colluttazione, avevano reso dichiarazioni contrastanti sulle modalità della medesima. Con la conseguenza che non si era raggiunta una prova certa sulla «dinamica degli eventi» e sulla mancanza ascritta al dipendente.
La Cassazione (n. 20211/16), intervenuta sulla questione, ha precisato che, in tema di legittimità del provvedimento espulsivo, spetta al datore di lavoro assolvere al principale onere, gravante a suo carico, di dimostrare il fatto ascritto al dipendente, “provandolo sia nella sua materialità, sia con riferimento all’elemento psicologico del lavoratore” (v. anche Cass. 29 luglio 2015, n. 16078, in GLav., 2015, n. 39, 51, relativa ad una fattispecie di licenziamento di un lavoratore che aveva avuto un diverbio litigioso con un collega, poi sfociato in vie di fatto e Cass. 29 maggio 2015, n. 11206). “La prova di una esimente che viene posta a carico del lavoratore è, quindi, elemento che viene in rilievo solo in una fase…successiva rispetto a quella concernente la dimostrazione delle mancanze ascritte”.
Clima di tensione. In tema, v. poi Cass. 2 settembre 2015, n. 17435, che ha dichiarato legittimo il licenziamento per giusta causa di un lavoratore per aver creato un clima di tensione in azienda, tenendo comportamenti di carattere minaccioso e ingiurioso verso altri lavoratori e violando deliberatamente alcune norme di legge attinenti l’attività aziendale.
Insulti. Quanto poi agli insulti nei confronti del superiore gerarchico, essi giustificano il licenziamento in tronco anche se non si concretizzano in gesti violenti o se il contratto collettivo non prevede questo tipo di sanzione. Essi integrano infatti una condotta che, sul piano organizzativo, mina l’autorità del soggetto offeso e, quindi, compromette il regolare funzionamento dell’organizzazione aziendale. Il principio è stato affermato dalla Cassazione (n. 9635/2016) relativamente ad un caso in cui un lavoratore era stato licenziato avendo rivolto espressioni ingiuriose nei confronti di un superiore gerarchico e, indirettamente, di tutta la dirigenza aziendale.
Sebbene le espressioni ingiuriose non si fossero tradotte nel rifiuto di svolgere la prestazione, e, secondo i giudici di primo grado e di appello, avessero un contenuto “privo di intenti realmente offensivi e aggressivi, trattandosi piuttosto di semplici abitudini lessicali” (tanto da dichiarare illegittimo il licenziamento, con reintegra sul posto di lavoro e risarcimento del danno), i giudici di legittimità hanno negato che l’insubordinazione del dipendente si configuri soltanto nell’ipotesi di rifiuto di adempiere alle disposizioni impartite da un superiore gerarchico. Essa, infatti, si concretizza ogni qualvolta il dipendente adotti un comportamento idoneo a pregiudicare lo svolgimento del lavoro nel quadro dell’organizzazione aziendale. È questo il caso, secondo la Corte, della critica che mini l’autorevolezza dei dirigenti o dei quadri.
Non rileva inoltre la mancata previsione, da parte del contratto collettivo, della condotta ingiuriosa tra quelle passibili di licenziamento, in quanto la giusta causa di licenziamento, la cui nozione legale non può essere alterata da un atto di natura privatistica come il contratto collettivo, può configurarsi ogni volta che il giudice rilevi un grave inadempimento del lavoratore, “contrario alle norme della comune etica o del comune vivere civile”, capace di compromettere il rapporto fiduciario con il datore di lavoro.
In altri termini, la giusta causa riveste il carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro ed in particolare di quello fiduciario (es.: furto, rissa, grave insubordinazione, critica non veritiera, violazione obbligo fedeltà, emissione di assegni a vuoto, aggressioni fisiche a colleghi) e, in generale, ogni comportamento contrario ai canoni di correttezza e buona fede.
Il rifiuto. Per ciò che concerne, in particolare, il rifiuto da parte del lavoratore di eseguire le direttive impartite dal capo squadra in turno e, successivamente, quelle del capo turno, sostenendo “di prendere ordini solo dal capo servizio”, non è stato considerato motivo legittimo di licenziamento da App. Caltanissetta, confermata da Cass. 13 febbraio 2017, n. 3735. Nello specifico, la Corte territoriale, dichiarando l’illegittimità del licenziamento, ha escluso la proporzionalità della sanzione risolutiva rispetto alla condotta addebitata. Ciò, in quanto il dipendente non aveva né omesso di prestare la sua attività lavorativa, né disapplicato le disposizioni datoriali, e neppure abbandonato il posto di lavoro. In particolare, egli si era limitato a dare le consegne al capo turno “montante”, come richiestogli dal suo diretto superiore, avendo ritenuto di dovere ricevere direttive dal capo turno smontante.
Inoltre, la condotta contestata non aveva provocato alcun nocumento alla sfera patrimoniale della datrice di lavoro, né esposizione a pericoli; e al lavoratore era stato richiesto di proseguire nella prestazione di lavoro all’esito del termine del turno prestato nelle ore notturne.