Il comportamento autoritario e severo del superiore gerarchico, anche se a tratti sgarbato, non configura un intento persecutorio tale da determinare responsabilità per mobbing.
Flavia Durval
“Ai fini della configurabilità del mobbing lavorativo devono ricorrere: a) una serie di comportamenti di carattere persecutorio – illeciti o anche leciti se considerati singolarmente – che, con intento vessatorio, siano posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi; b) l’evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente; c) il nesso eziologico tra le descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psico-fisica e/o nella propria dignità; d) l’elemento soggettivo, cioè l’intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi”.
Lo ha ribadito la Cassazione (26 gennaio 2017, n. 2012; v. anche Cass., n. 17698 del 2014) in relazione al ricorso di un ausiliario socio sanitario (in servizio presso il blocco operatorio centralizzato di un Ospedale), il quale aveva agito in giudizio, chiedendo il risarcimento dei danni biologici, morali ed esistenziali, affermando di aver subito, a partire dalla fine del 1997 e fino al suo trasferimento ad altro reparto, “un lungo, costante e duraturo processo di azioni vessatorie intenzionali da parte del caposala”, il quale ogni volta che impartiva ordini di lavoro, seppur legittimi, “utilizzava un linguaggio scurrile ed ingiurioso ed un tono aggressivo, cercava ogni pretesto per rimproverarlo davanti a tutti, lo vessava ordinandogli di pulire luoghi già puliti pochi minuti prima o che non dovevano essere puliti quotidianamente, lo minacciava sistematicamente con frasi ingiuriose al fine di umiliarlo ed intimava ai colleghi di non rivolgergli la parola, allo scopo di isolarlo ed emarginarlo”. Secondo il lavoratore, l’amministrazione datrice di lavoro, messa tempestivamente a conoscenza di tali condotte persecutorie, che gli avevano causato problemi di salute (mal di testa, nausea e reflussi gastro-esofagei), aveva mantenuto un atteggiamento “disinteressato e omissivo, lasciando che le cose degenerassero, e poi lo aveva trasferito, portando a compimento il disegno illecito del capo sala di liberarsi di lui”.
Mentre, il Tribunale aveva accolto la domanda del lavoratore, il ricorso è stato respinto dalla Corte d’Appello che ha escluso l’intento persecutorio del caposala nei confronti di esso ricorrente.
I giudici di legittimità hanno ripercorso l’iter seguito nel giudizio di merito, nel quale si erano rilevati eventi che avevano incrinato un precedente rapporto di amicizia e causato acrimonia del caposala nei confronti del ricorrente. Nello specifico, i due avevano comprato una piccola imbarcazione insieme per poi “scontrarsi” in relazione al mancato pagamento di una rata da parte del caposala, che veniva poi “escluso dalla possibilità di esercitare l’hobby della pesca con la suddetta barca”.
Nella sentenza di appello, è risultato “in modo pressoché unanime il giudizio positivo sulle capacità professionali e, soprattutto, organizzative del caposala, sia da parte dei medici, che del collega caposala anch’esso, che dei sottoposti, che avevano riconosciuto allo stesso alto senso di responsabilità e disponibilità a svolgere, in caso di emergenza, anche attività che non erano di sua competenza. Dal complesso delle testimonianze è emerso, infatti, un caposala sempre attento alle necessità del reparto, capace di distribuire efficacemente il lavoro tra gli addetti, esigente con tutto il personale sottoposto al suo coordinamento, nei confronti del quale utilizzava tuttavia modi autoritari e a tratti anche sgarbati, alzando spesso la voce quando qualcosa non andava bene ed in particolare quando i medici segnalavano problemi riguardanti la pulizia dei ferri chirurgici o della sala operatoria”.
In sintesi, non è risultato provato che il caposala utilizzasse sistematicamente nei confronti del ricorrente espressioni ingiuriose o un linguaggio scurrile. In altre parole, essere “autoritario e severo, magari anche usando espressioni inurbane”, non è apparso indice di intento persecutorio rivolto al ricorrente, “quanto piuttosto di un modo personale, seppure senz’altro discutibile, di esercitare le prerogative del superiore gerarchico, ma ciò con la finalità di scongiurare disservizi e garantire l’efficienza del reparto”. Non è stata neppure dimostrata l’asserita volontà di isolare o emarginare il ricorrente, in quanto dalle risultanze testimoniali è emerso che “il caposala invitava gli altri ausiliari a non parlare troppo con il ricorrente, altrimenti lo stesso non avrebbe lavorato, non si sarebbe concentrato sul lavoro, dal che emerge lo scopo dichiarato di non creare occasioni di distrazione”.
La Corte d’Appello ha invece evidenziato che, “secondo alcuni infermieri e tutti i medici, il ricorrente eseguiva il lavoro in modo lento, non puliva in modo scrupoloso i locali e i ferri chirurgici, veniva a volte trovato nascosto in una stanza con la luce spenta, oppure dormiente, ovvero intento a chiacchierare, oppure non lo si trovava in reparto”.
I giudici hanno altresì escluso che fosse provato il danno alla salute e il nesso di causalità con la pretesa situazione mobbizzante.
In tema di mobbing, v., anche, in questo Blog, K. PUNTILLO, Rifiuto di concedere le ferie e mobbing, nota a Cass. 3 febbraio 2016, n. 2126; F. ALBINIANO, Lo “straining” quale forma di mobbing attenuato, nota a Cass. 19 febbraio 2016, n. 3291; ID., Criteri identificativi delle condotte mobbizzanti, nota a Trib. Ascoli Piceno, sez. lav., 4 marzo 2016;K. PUNTILLO, È colpevole il datore inerte che non rimuove i fatti lesivi o le condizioni ambientali idonei a determinarli, nota a Cass. 4 gennaio 2017, n. 74.