Al fine di una valida contestazione è necessario l’inserimento nel codice disciplinare di tutti quei comportamenti del dipendente della banca che integrino la violazione di procedure di concessione di prestiti o fidi.

Nota a Cass. 3 gennaio 2017, n. 54

Gennaro Ilias Vigliotti

Quando il comportamento assunto dal lavoratore nello svolgimento della prestazione sia da questi immediatamente percepibile come illecito, poiché contrario al c.d. “minimo etico” o a norme di rilevanza penale, non è necessario provvedere all’inserimento di tali comportamenti nel codice disciplinare per contestare l’infrazione e sanzionare il dipendente, sia in senso conservativo che espulsivo. In tali casi, infatti, secondo il consolidato indirizzo della Corte di Cassazione (Cass. n. 13414/2013; Cass. n. 1926/2011; Cass. n. 17763/2004), il lavoratore ben può rendersi conto, anche al di là di un’analitica predeterminazione dei comportamenti vietati e delle relative sanzioni da parte del codice disciplinare, dell’illiceità e gravità dei comportamenti assunti.

Al contrario, quando il dovere comportamentale non sia rinvenibile in principi di pubblico dominio o in norme di derivazione penalistica, il datore di lavoro, per poter validamente contestare disciplinarmente la violazione, dovrà prevedere specificamente all’interno del codice di disciplina i comportamenti censurabili e le sanzioni comminabili.

Tale principio, con riferimento al settore del credito, è stato di recente confermato dalla sentenza n. 54 del 3 gennaio 2017 della Sezione Lavoro della Suprema Corte, la quale si è pronunciata circa la legittimità della sospensione per 8 giorni, senza decorso della retribuzione, di un dipendente di un noto istituto di credito italiano che aveva compiuto gravi e reiterate violazioni delle regole interne di concessione di fidi e prestiti bancari.

La banca aveva applicato il provvedimento sanzionatorio nonostante il codice disciplinare applicato in azienda non prevedesse alcuna specifica sanzione per la violazione della procedura di concessione di fidi e prestiti, sostenendo che le regole violate dal dipendente costituivano principi consolidati della pratica bancaria, dunque conosciuti e conoscibili dal dipendente, a prescindere da un loro formale inserimento nel codice disciplinare.

Il lavoratore, però, aveva impugnato giudizialmente la sanzione, evidenziando che gli obblighi violati non corrispondevano a principi morali acquisiti o norme penali vigenti, bensì erano oggetto di direttive interne in continuo mutamento e definizione, come tali necessitanti di specifiche previsioni del codice disciplinare per costituire contenuto di violazioni disciplinarmente rilevanti.

La Corte, accogliendo la prospettazione del lavoratore, ha stabilito che nel caso di specie non si è trattato di norme rientranti nel c.d. “minimo etico”, riconoscibili come tali e sanzionabili senza specifica previsione, bensì di norme di azione che “derivano da direttive interne della Banca, che possono mutare nel tempo, in relazione a contingenze economiche e di mercato, così come può mutare nel tempo, anche in relazione luogo, al momento ed alla tipologia del cliente, il grado di elasticità consentito nella loro applicazione”.

Ne consegue che l’ambito ed i limiti della rilevanza ai fini disciplinari dell’inosservanza di disposizioni riguardanti le procedure dei prestiti e dei fidi bancari, nonché la gravità della stessa ai fini di adeguatezza della sanzione, devono sempre essere previamente posti dalla banca a conoscenza dei propri dipendenti, nell’osservanza delle prescrizioni contenute nell’art. 7, L. n. 300/1970 (Statuto dei lavoratori).

Per sanzionare le violazioni dei procedimenti di fido bancario è necessario il codice disciplinare.
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