Il verbale di conciliazione sottoscritto in sede sindacale può essere annullato se il dipendente è stato ingannato

Nota a Cass. 30 marzo 2017, n. 8260

 

Fabrizio Girolami

Il verbale di conciliazione sottoscritto in sede sindacale dal prestatore di lavoro nell’ambito una procedura di licenziamento collettivo ai sensi della legge 23 luglio 1991, n. 223, può essere annullato per “dolo omissivo” del datore di lavoro, ai sensi e per gli effetti dell’art. 1439 cod. civ., se quest’ultimo, con una condotta di silenzio e/o reticenza “maliziosa”, ha indotto in inganno il prestatore medesimo, dichiarando che la sua posizione lavorativa è in esubero, salvo affidarla successivamente ad un altro lavoratore assunto.

Lo ha affermato la Cassazione con sentenza 30 marzo 2017, n. 8260, in accoglimento del ricorso proposto da un dipendente di un’azienda del settore privato (con qualifica di quadro e mansioni di “strategic sourcing senior manager ”, ossia di responsabile della produttività relativa agli acquisti) il quale, in esito ad una procedura di licenziamento collettivo (che aveva condotto anche al suo licenziamento con lettera del 18 dicembre 2011), aveva sottoscritto, in data 24 gennaio 2012, un verbale di formalizzazione di accettazione del suddetto licenziamento.

Nel caso in esame, il lavoratore aveva richiesto in sede giudiziale l’annullamento del verbale “de quo” e, conseguentemente, la dichiarazione di inefficacia del licenziamento irrogato con la condanna del datore di lavoro alla sua reintegrazione nel posto in azienda, sostenendo di essere stato indotto a sottoscrivere il verbale per effetto degli inganni e dei raggiri perpetrati dalla controparte datoriale (c.d. “vizio del consenso” derivante da dolo del datore di lavoro o, comunque, da errore).

In particolare, il ricorrente aveva rappresentato che il verbale di conciliazione era stato sottoscritto in esito ad un accordo sindacale nell’ambito di una procedura di mobilità (avviata nell’anno 2011) in relazione ad una situazione di eccedenza di 21 posizioni lavorative e che il datore gli aveva fatto erroneamente credere che la propria posizione professionale rientrasse tra quelle effettivamente eccedenti, salvo poi procedere successivamente all’assunzione di un altro lavoratore per la stessa posizione. Il dipendente sosteneva pertanto di essere stato ingannato e raggirato dal datore di lavoro, sottoscrivendo il verbale di conciliazione sull’erroneo presupposto dell’inesistenza (solo poi scoperta) della soppressione della propria posizione lavorativa.

La domanda, rigettata dai giudici di merito (Tribunale di Milano, in primo grado; Corte di Appello, in seconda istanza), è stata accolta dalla Cassazione che ha rilevato un “errore di diritto” nell’iter logico seguito dalla Corte territoriale, affermando l’astratta idoneità della condotta posta in essere dal datore di lavoro a trarre in inganno il lavoratore.

Il datore di lavoro, infatti, nel documento in allegato alla lettera di apertura della procedura di mobilità, aveva espressamente incluso la posizione del ricorrente tra quelle eccedentarie, salva poco tempo dopo assumere un altro lavoratore per la medesima posizione.

La Cassazione ha evidenziato che “la corte milanese non ha considerato come anche una condotta di silenzio malizioso sia idonea ad integrare raggiro”, richiamando i principi già formulati dalla giurisprudenza penale (cfr., fra le altre, Cass. pen. 18 giugno 2015, n. 28791), secondo cui il silenzio, serbato su circostanze rilevanti ai fini della valutazione delle reciproche prestazioni da parte di colui che abbia il dovere di farle conoscere, costituisce “elemento del raggiro, idoneo ad influire sulla volontà negoziale del soggetto passivo”.

Più specificamente, il giudice di legittimità ha ribadito il consolidato principio di diritto (cfr., tra le tante, Cass. 17 maggio 2012, n. 7751), secondo cui “nel contratto di lavoro, il silenzio serbato da una delle parti in ordine a situazioni di interesse della controparte e la reticenza, qualora l’inerzia della parte si inserisca in un complesso comportamento adeguatamente preordinato, con malizia o astuzia, a realizzare l’inganno perseguito, determinando l’errore del deceptus [id est del soggetto passivo del dolo], integrano gli estremi del dolo omissivo rilevante ai sensi dell’art. 1439 c.c.”.

Secondo la Corte occorre altresì tenere presente che in materia di dolo quale causa di annullamento del contratto, nelle ipotesi di dolo tanto “commissivo” (intendendosi per tale quello fondato su un comportamento attivo, ovverosia su artifici e/o raggiri) quanto “omissivo” (intendendosi per tale quello basato su un comportamento passivo, ovverosia su silenzi e reticenze maliziose), gli artifici o i raggiri, così come la reticenza o il silenzio, devono essere valutati in relazione alle particolari circostanze di fatto e alle qualità e condizioni soggettive dell’altra parte, onde stabilirne l’idoneità “a sorprendere una persona di normale diligenza”, non potendo l’affidamento ricevere tutela giuridica se fondato sulla negligenza.

Sulla base di tale articolato iter logico argomentativo, la Cassazione ha cassato la sentenza impugnata, rinviando alla Corte di Appello di Milano in diversa composizione, al fine di provvedere alla regolazione delle spese e, all’accertamento, alla luce dei sopra illustrati principi di diritto, dell’idoneità della condotta del datore di lavoro ad integrare un “dolo omissivo” in danno del proprio dipendente, così da comportare l’annullamento del verbale di conciliazione sottoscritto tra le parti in sede sindacale, nell’ambito della procedura di mobilità e le pronunce ad esso eventualmente conseguenti.

Annullabilità del verbale di conciliazione per “silenzio malizioso” del datore di lavoro
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