Per la responsabilità disciplinare non basta che la denuncia all’autorità giudiziaria, da parte di un dipendente, si riveli infondata ed il procedimento penale venga definito con la archiviazione della notizia criminis o con la sentenza di assoluzione
Nota a Cass. 16 febbraio 2017, n. 4125
Angela Breval
“Non integra giusta causa o giustificato motivo soggettivo di licenziamento la condotta del lavoratore che denunci all’autorità giudiziaria o all’autorità amministrativa competente fatti di reato o illeciti amministrativi commessi dal datore di lavoro, a meno che non risulti il carattere calunnioso della denuncia o la consapevolezza della insussistenza dell’illecito, e sempre che il lavoratore si sia astenuto da iniziative volte a dare pubblicità a quanto portato a conoscenza delle autorità competenti”.
A statuirlo è la Corte di Cassazione (16 febbraio 2017 n. 4125), la quale, contrariamente a quanto affermato dai giudici di merito, ha ritenuto illegittimo il licenziamento per giusta causa di un lavoratore, intimato per aver sottoscritto un documento, indirizzato alla Procura della Repubblica (di Velletri) e al Ministero del Lavoro, con cui lo stesso denunciava l’utilizzazione “illegittima della cassa integrazione guadagni straordinaria e altre violazioni relative alla disciplina legale e contrattuale del lavoro straordinario, alla utilizzazione di fondi pubblici e alla normativa sulla intermediazione di manodopera”.
In particolare la Corte, in linea con un precedente orientamento, ha escluso che la denuncia di fatti di potenziale rilievo penale accaduti nell’azienda integri una giusta causa o un giustificato motivo soggettivo di licenziamento, a condizione che non emerga la natura calunniosa della denuncia stessa, ossia la consapevolezza da parte del lavoratore della non veridicità di quanto denunciato e, dunque, la volontà di accusare il datore di lavoro di fatti mai accaduti o dal medesimo non commessi (in questa linea, Cass. n. 966/2017, con nota di M. N. BETTINI, Dovere di diligenza, interesse dell’impresa e diritto di critica, in questo sito; Cass. n. 14249/2015 e Cass. n. 6501/2013).
Per i giudici deve escludersi che l’obbligo di fedeltà, ex art. 2105 c. c. (in correlazione con i canoni generali di correttezza e buona fede, previsti dagli artt. 1175 e 1375 c. c.), si estenda fino ad imporre al lavoratore di astenersi dalla denuncia di fatti illeciti che egli ritenga consumati all’interno dell’azienda, giacché, in tal caso, “si correrebbe il rischio di scivolare verso – non voluti, ma impliciti – riconoscimenti di una sorta di ‘dovere di omertà’ (ben diverso da quello di fedeltà di cui all’art. 2105 c. c.)” che non trova “la benché minima cittadinanza nel nostro ordinamento” (v. Cass. n. 144/2015 e Cass. n. 6501/2013).
Al contrario, lo Stato di diritto “attribuisce valore civico e sociale all’iniziativa del privato che solleciti l’intervento dell’autorità giudiziaria di fronte alla violazione della legge penale, e, sebbene ritenga doverosa detta iniziativa solo nei casi in cui vengono in rilievo delitti di particolare gravità, guarda con favore la collaborazione prestata dal cittadino, in quanto finalizzata alla realizzazione dell’interesse pubblico alla repressione dei fatti illeciti.”
La presenza e la valorizzazione di un interesse pubblico superiore esclude, pertanto, “che nell’ambito del rapporto di lavoro la sola denuncia all’autorità giudiziaria di fatti astrattamente integranti ipotesi di reato, possa essere fonte di responsabilità disciplinare e giustificare il licenziamento per giusta causa, fatta eccezione per l’ipotesi in cui l’iniziativa sia stata strumentalmente presa nella consapevolezza della insussistenza del fatto o della assenza di responsabilità del datore.”