Il datore di lavoro deve provare di avere adottato, per la tutela dell’integrità psico-fisica dei lavoratori, tutte le misure necessarie, anche se non specificate dalla legge, ma suggerite da conoscenze sperimentali e tecniche nonché dagli standards di sicurezza normalmente osservati.
Nota a Cass. 19 aprile 2017, n. 9870
Alfonso Tagliamonte
Il datore di lavoro è obbligato a garantire ai lavoratori la sicurezza e la tutela delle condizioni di lavoro, adottando nell’esercizio dell’impresa “le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie per tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei lavoratori”.
Il principio, contenuto nell’art. 2087 c.c., è stato riaffermato da Cass. 19 aprile 2017, n. 9870, la quale ha precisato che il lavoratore il quale vanti un danno per violazione dell’obbligo di sicurezza previsto dalla norma codicistica non è tenuto a dimostrare la colpa del datore di lavoro (v. anche Cass. n. 836/2016). Spetta infatti a quest’ultimo (ex art. 1218 c.c.) fornire la prova che l’impossibilità della prestazione o la non esatta esecuzione della stessa, ovvero il pregiudizio che ha colpito la controparte, derivano da causa a lui non imputabile (v. anche Cass. 11 aprile 2013, n. 8855).
Né può costituire “ragione di esonero totale da responsabilità l’eventuale concorso di colpa di altri dipendenti, se non quando la loro condotta rappresenti la causa esclusiva dell’evento” (v. anche Cass. n. 2209/2016).
Nella fattispecie esaminata dalla Corte, i giudici hanno accertato che il datore di lavoro non aveva provato l’adozione di comportamenti specifici a tutela della sicurezza dei lavoratori secondo quanto imposto dall’art. 2087 c.c. che “integra, al contempo, fonte di responsabilità contrattuale e risarcitoria (nella specie danno morale) in quanto la fattispecie astratta di reato è configurabile anche nei casi in cui la colpa sia addebitata per non avere fornito la prova liberatoria richiesta dall’art. 1218 c.c.” (così, anche Cass. 3 febbraio 2015, n. 1918).
Tale disposizione, inoltre, pone a carico del datore di lavoro una responsabilità non “circoscritta alla violazione di regole di esperienza o di regole tecniche preesistenti e collaudate, bensì in modo aperto sanziona l’omessa predisposizione di tutte le misure e cautele atte a preservare la integrità psicofisica del lavoratore nel luogo di lavoro, tenuto conto della concreta realtà aziendale e della maggiore o minore possibilità di indagare sull’esistenza di fattori di rischio in un determinato momento storico (Cass. n. 18626/2013). In sintesi, l’impresa deve adottare tutte le misure necessarie alla sicurezza, seppur non specificamente dettate dalla legge, ma suggerite “da conoscenze sperimentali e tecniche nonché dagli standards di sicurezza normalmente osservati”, idonei ad evitare l’evento”.
La Cassazione si sofferma anche sulla nozione di danno non patrimoniale ai sensi dell’art. 2059 c.c. (v. Cass. 15 gennaio 2014, n. 687 e Cass. 23 settembre 2013, n. 21716), per chiarire che esso, anche secondo una lettura costituzionalmente orientata, “non disciplina un’autonoma fattispecie di illecito, produttiva di danno non patrimoniale distinta da quella prevista dall’art. 2043 c.c., ma regola i limiti e le condizioni di risarcibilità dei pregiudizi non patrimoniali, tra i quali è da annoverare la necessità che la lesione sia grave e che il danno non sia futile (Cass. 16 dicembre 2014, n. 26367, Cass. 9 aprile 2009, n. 8703): nella piena compatibilità con la responsabilità datoriale a norma dell’art. 2087 c.c.”.