Il trasferimento del lavoratore per incompatibilità ambientale, non avendo natura disciplinare, non richiede l’osservanza della procedura imposta dall’art. 7 dello Statuto dei Lavoratori per i procedimenti disciplinari
Nota a Cass. 11 maggio 2017, n. 11568
Valerio Di Bello
Come noto, “l’incompatibilità ambientale” è un concetto enucleato dalla giurisprudenza al fine di descrivere una situazione di difficoltà di rapporti di un lavoratore con altri lavoratori (colleghi o superiori gerarchici), tale da ingenerare disorganizzazione e disfunzione all’interno di una azienda.
La Corte di Cassazione con la sentenza n. 11568 dell’11 maggio 2017 è tornata a pronunciarsi su tale tematica, confermando l’orientamento maggioritario (ormai pressoché granitico) secondo cui il trasferimento del dipendente dovuto ad incompatibilità ambientale non ha natura disciplinare, trovando la sua ragione nelle esigenze tecniche, organizzative e produttive di cui all’art. 2103 c.c., ed è subordinato ad una valutazione discrezionale dei fatti che fanno ritenere nociva, per il prestigio ed il buon andamento dell’ufficio, l’ulteriore permanenza del lavoratore in una determinata sede.
La vicenda sottoposta al vaglio dei Giudici di legittimità ha visto come protagonista un dipendente comunale che aveva impugnato il provvedimento con il quale il datore di lavoro disponeva il suo trasferimento presso altra sede lavorativa, a causa di continui litigi e delle difficoltà di comunicazione fra il lavoratore trasferito e i suoi colleghi, che realizzavano una «incompatibilità ambientale».
Il provvedimento è stato impugnato dal lavoratore prima davanti al Tribunale di Roma e, ottenuto il rigetto del ricorso, davanti alla Corte di Appello capitolina, la quale ha – anch’essa – convenuto per il rigetto delle doglianze del dipendente.
Il lavoratore avverso la decisione dei Giudici di appello ha proposto, quindi, ricorso in Cassazione. La Suprema Corte, confermando il proprio recente orientamento (v. Cass. 27 gennaio 2017, n. 2143), ha respinto il ricorso ed ha affermato che il datore di lavoro può legittimamente disporre il trasferimento del prestatore quando è finalizzato alla tutela dell’efficienza e dell’organizzazione dell’azienda, aggiungendo, inoltre, che, non trattandosi di una sanzione nei confronti del dipendente, per l’adozione del provvedimento non è necessario rispettare la procedura prevista dallo Statuto dei lavoratori in tema di contestazioni disciplinari.
Ne consegue, pertanto, che la legittimità del provvedimento datoriale di trasferimento prescinde dalla colpa (in senso lato) dei lavoratori trasferiti, come dall’osservanza di qualsiasi altra garanzia sostanziale o procedimentale che sia stabilita per le sanzioni disciplinari, fondandosi unicamente su ragioni tecniche, organizzative o produttive.