Il dipendente che vende capi d’abbigliamento in azienda, durante l’orario di lavoro, distoglie ad altri fini le proprie energie lavorative, ledendo irrimediabilmente gli interessi del datore di lavoro
Nota a Cass. 25 maggio 2017, n. 13199
Fabio Iacobone
Un comportamento illecito del lavoratore ridotto temporalmente e dal quale non derivi un pregiudizio concreto per il datore di lavoro è nondimeno idoneo a ledere il vincolo fiduciario insito nel rapporto di lavoro qualora ponga in dubbio la correttezza del futuro adempimento. Ciò, alla luce delle “modalità della prestazione richiesta al dipendente, nel senso che ove questa si svolga al di fuori della diretta osservazione e del controllo da parte del datore di lavoro, è maggiore l’affidamento che quest’ultimo deve potere riporre nella correttezza e nella buona fede del lavoratore”.
Il principio è stato affermato dalla Corte di Cassazione (25 maggio 2017, n. 13199), la quale ha cassato la pronunzia dei giudici di merito, in relazione ad una fattispecie in cui un dipendente, durante l’orario di lavoro, vendeva capi di abbigliamento in azienda, essendo socio di una ditta che gestiva un esercizio commerciale di vendita al minuto di biancheria intima. Egli, inoltre, utilizzando l’autovettura aziendale, aveva raggiunto per due volte detto esercizio commerciale, dove si era trattenuto per circa 40 minuti. Secondo la Corte, pur essendo provato lo svolgimento di attività extralavorativa durante l’orario di lavoro, come tale integrante illecito disciplinare, la condotta non era di gravità tale da giustificare il recesso perché occorreva tener conto della «ridotta portata temporale della violazione accertata, da rapportarsi all’orario flessibile e alle mansioni mobili di impiegato direttivo», mansioni che richiedevano la «regolare presenza presso agenzie e sedi della società dislocate sul territorio, con conseguente frequente e necessitata mobilità».
I giudici hanno motivato la decisione sulla base di tre presupposti fondamentali:
1) per valutare se la violazione disciplinare addebitata al lavoratore abbia compromesso la fiducia necessaria ai fini della permanenza del rapporto di lavoro, e quindi costituisca giusta causa di licenziamento, occorre tener presente che l’intensità della fiducia richiesta al dipendente è diversa “a seconda della natura e della qualità del singolo rapporto, della posizione delle parti, dell’oggetto delle mansioni e del grado di affidamento che queste richiedono e che il fatto concreto va valutato nella sua portata oggettiva e soggettiva, attribuendo rilievo determinante, ai fini in esame, alla potenzialità del medesimo di porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento” (in tale senso, Cass. 12 dicembre 2012, n. 22798 e Cass. 8 agosto 2011, n. 17092);
2) l’obbligo di fedeltà che grava sul lavoratore gli impone di astenersi, non solo da comportamenti espressamente vietati dall’art. 2105 c. c., ma anche da qualsiasi altra condotta che sia in contrasto con i doveri connessi all’inserimento nella struttura e nell’organizzazione dell’impresa o che concretizzi una situazione di conflitto con gli interessi del datore di lavoro (v. anche Cass. 9 gennaio 2015, n. 144). Lo svolgimento di attività extralavorativa durante l’orario di lavoro, seppure in un settore non interferente con quello curato dal datore, è astrattamente idoneo a ledere gli interessi di quest’ultimo, se non altro perché le energie lavorative del prestatore vengono distolte ad altri fini e, quindi, finisce per essere non giustificata la corresponsione della retribuzione che, in relazione alla parte commisurata alla attività non resa, costituisce per il datore un danno economico e per il lavoratore un profitto ingiusto” (v. anche Cass. 5 maggio 2000 n. 5629).
3) Non è necessario che “l’esistenza della “causa” idonea a non consentire la prosecuzione del rapporto sia ravvisabile esclusivamente nel complesso dei fatti ascritti, ben potendo il giudice – nell’ambito degli addebiti posti a fondamento del licenziamento dal datore di lavoro – individuare anche solo in alcuni o in uno di essi il comportamento che giustifica la sanzione espulsiva, se lo stesso presenti il carattere di grave inadempimento richiesto dall’art. 2119 cod. civ.” Sicché l’insussistenza di taluni addebiti contestati non esclude, di per sé, la giusta causa o il giustificato motivo soggettivo di recesso. Nella stessa linea (Cass. 31 ottobre 2013, n. 24574; Cass. 30 maggio 2014, n. 12195).