La reperibilità c.d. passiva del dirigente medico non è equiparabile al lavoro effettivo e non dà diritto al riposo compensativo; tale diritto va invece garantito nel caso di richiesta di prestazione effettiva nel corso del servizio di reperibilità

Nota a Cass. 14 giugno 2017, n. 14770

Francesca Albiniano

Il servizio di reperibilità “passiva” svolto dal dirigente medico non può essere equiparato al lavoro effettivo. è questo un principio di diritto consolidato, ribadito dalla sentenza della Corte di Cassazione 14 giugno 2017, n. 14770, secondo cui dalla prestazione del servizio “non deriva, quale effetto automatico, il diritto del dipendente a fruire del riposo compensativo, rimesso, invece, alla sua scelta discrezionale” (v. anche Cass. 4 giugno 2016, n. 6491; Cass. 18 marzo 2016, n. 5465; Cass. n. 9316/2014; Cass. n. 11730/2013; Cass. n. 4688/2011).

In particolare, con le pronunce nn. 5465 e 6491 del 2016, la Corte, con riferimento al servizio che non abbia comportato la chiamata del dipendente, ha evidenziato che le parti collettive (art. 7, CCNL 20 settembre 2001 e art. 17, CCNL 3 novembre 2005) hanno previsto:

  1. la concessione di un riposo compensativo “senza riduzione del debito orario settimanale, ossia di una giornata di riposo la cui fruizione lascia globalmente immutata l’ordinaria prestazione oraria settimanale e, quindi, impone una variazione in aumento della durata della attività lavorativa da prestare negli altri giorni della settimana”;
  2. e, quindi, la nascita di un obbligo del datore di lavoro di concedere la giornata di riposo e di rimodulare, conseguentemente, l’orario settimanale, “solo qualora il dipendente ne faccia espressa richiesta, la quale trova la sua ratio nella maggiore gravosità della prestazione che, in caso di fruizione del riposo compensativo, deve essere resa negli altri giorni lavorativi”.

Per altro verso, i giudici hanno precisato che “ove nel corso del servizio di reperibilità si renda necessaria la prestazione effettiva, l’azienda sanitaria non può limitarsi a corrispondere la maggiorazione per il lavoro straordinario prestato nella giornata festiva, ma deve anche garantire il riposo settimanale, che è irrinunciabile e si pone su un piano diverso e distinto da quello della quantificazione del trattamento retributivo previsto dalle parti collettive per la prestazione resa a seguito della chiamata nonché dal riposo compensativo che può essere richiesto in luogo della prevista maggiorazione”.
Muovendo dal presupposto che l’art. 7 del CCNL 20 settembre 2001 e l’art. 17 del CCNL 3 novembre 2005, nella parte in cui escludono la riduzione del debito orario complessivo, si riferiscono unicamente alla reperibilità passiva, la Cassazione (richiamando ancora una volta il proprio precedente orientamento – decisioni nn. 5465 e 6491 del 2016 -) ha poi affermato che “la previsione di un compenso maggiorato per l’attività prestata in giorno festivo non incide, neppure indirettamente, sulla disciplina della durata complessiva settimanale dell’attività lavorativa e sul diritto del dipendente alla fruizione del necessario riposo, che dovrà essere garantito dalla azienda, a prescindere da una richiesta, trattandosi di diritto indisponibile, riconosciuto dalla Carta costituzionale oltre che dall’art. 5 della direttiva 2003/88/CE”.
Al riguardo, infatti, gli artt. 20 CCNL 1 gennaio 1995 per il personale non dirigente e 22 CCNL 5 dicembre 1996 per la dirigenza medica e veterinaria affermano chiaramente che «il riposo settimanale non è rinunciabile e non può essere monetizzato».
La mancata fruizione del riposo settimanale, inoltre, è fonte di danno non patrimoniale che deve essere presunto perché «l’interesse del lavoratore leso dall’inadempimento datoriale ha una diretta copertura costituzionale nell’art. 36 Cost., sicché la lesione dell’interesse espone direttamente il datore al risarcimento del danno» (così, Cass. 1 dicembre 2016, n. 24563; Cass. 16 agosto 2015, n. 16665; Cass. 25 ottobre 2013, n. 24180; Cass. S.U. 7 gennaio 2013, n. 142).

Dirigente medico: reperibilità e riposo compensativo (Cass. n. 14770/2017)
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