E’ nullo il licenziamento intimato a causa del matrimonio
Nota a Cass. 14 giugno 2017, n. 14775
Annarita Lardaro
Si presume nullo il licenziamento della lavoratrice, intimato nel periodo assistito dal divieto legale di matrimonio, ai sensi dell’art. 35 D. Lgs. n. 198 del 2006, a meno che il datore di lavoro non superi la presunzione assoluta, dimostrando la sussistenza di una delle tassative ipotesi di cui al medesimo art. 35, co 5.
È quanto ha stabilito dalla Cassazione con sentenza 14 giugno 2017, n. 14775, ribadendo un orientamento ormai consolidato.
In generale, l’art. 35, co 3, del D.Lgs. n. 198/ 2006 (comunemente noto come Codice delle pari opportunità) prevede che: “si presume che il licenziamento della dipendente nel periodo intercorrente dal giorno della richiesta delle pubblicazioni di matrimonio, in quanto segua la celebrazione, a un anno dopo la celebrazione stessa, sia stato disposto per causa di matrimonio”.
La ratio da cui muove tale norma è di evitare che il datore di lavoro temendo, dopo il matrimonio della dipendente, un’imminente gravidanza, possa recedere anticipatamente dal contratto di lavoro per non incorrere nelle successive preclusioni relative al licenziamento della lavoratrice durante la gravidanza. Tuttavia, al quinto comma dell’art. 35 sono elencate le fattispecie in cui al datore di lavoro è data facoltà di provare che licenziamento della lavoratrice, avvenuto nel periodo di cui al co. 3, è stato effettuato non a causa di matrimonio, ma per una delle seguenti ipotesi: a) colpa grave da parte della lavoratrice, costituente giusta causa per la risoluzione del rapporto di lavoro; b) cessazione dell’attività dell’azienda cui essa è addetta; c) ultimazione della prestazione per la quale la lavoratrice è stata assunta o risoluzione del rapporto di lavoro per scadenza del termine.
Nel caso di specie, il datore di lavoro aveva sostenuto la legittimità del recesso, in quanto intervenuto a causa della cessazione dell’attività d’impresa. La Cassazione, però, ha escluso la sussistenza dell’ipotesi di cui all’art. 35 co. 5, lett. b), in quanto: la liquidazione della società era stata deliberata dopo sei mesi dall’intimato licenziamento; gli altri dipendenti erano stati licenziati in epoca successiva; e la perdita delle commesse (unico dato emerso all’esito dell’istruttoria) non si traduce nell’immediata cessazione dell’attività produttiva perché, anzi, comporta la prosecuzione sino all’evasione degli ordini in precedenza ricevuti.
La Corte ha, altresì, ritenuto infondato il ricorso nella parte in cui sosteneva che il giudice d’appello avrebbe dovuto equiparare alla cessazione dell’attività produttiva quella del ramo d’azienda o del reparto al quale era addetta la lavoratrice, non ritenendo assolto da parte datoriale né l’onere di dimostrare la ricorrenza dell’autonomia funzionale del ramo o del reparto al quale era addetta la lavoratrice né l’obbligo di repêchage.