Non basta l’inerzia del lavoratore per provare l’effettiva intenzione di sciogliere il vincolo contrattuale dopo la scadenza del termine
Nota a Cass. 5 maggio 2017, n. 11020
Gennaro Ilias Vigliotti
La mera inerzia del lavoratore dopo la scadenza di un contratto a termine non è di per sé sufficiente a far considerare sussistente una risoluzione del rapporto per mutuo dissenso. Ciò in quanto, affinché possa configurarsi tale risoluzione, è necessario che sia accertata, sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell’ultimo contratto a termine, nonché del comportamento tenuto dalle parti e di eventuali circostanze significative, una chiara e comune volontà delle parti medesime di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo.
Tale principio di diritto, sostenuto dall’orientamento ormai consolidato della Corte di Cassazione (su tutte, si vedano Cass. 14 ottobre 2015, n. 10704; Cass. 28 gennaio 2014, n. 1780; Cass. 1 marzo 2011, n. 5887; Cass. 15 novembre 2010, n. 23057; Cass. 10 novembre 2008, n. 26935), è stato di recente confermato dalla sentenza 5 maggio 2017, n. 11020, con la quale i giudici di legittimità hanno esaminato la controversia sorta tra un noto gruppo bancario italiano ed un dipendente dello stesso che, nel periodo 1994-1995, aveva lavorato in funzione di successivi contratti a termine illegittimi, impugnati solo nel 2000. La società ricorrente aveva provato ad argomentare la risoluzione del contratto “per facta concludentia”, in quando il lavoratore aveva atteso diversi anni prima di contestare la regolarità del suo impiego a termine.
La Cassazione ha chiarito che in casi simili il giudice di merito deve valutare la sussistenza di una “chiara e comune volontà delle parti” volta ad estinguere il rapporto di lavoro, da intendersi come l’intenzione inequivocabile delle stesse a non volersi più vincolare reciprocamente. Tale valutazione va effettuata, con riferimento ai casi di contratto a termine, sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell’ultimo contratto, nonché dal comportamento tenuto dal datore e dal lavoratore e di eventuali circostanze significative che abbiano caratterizzato la relazione tra le parti.
E’ d’uopo segnalare, comunque, che nella sentenza in commento la Corte si è occupata di contratti a termine sottoscritti durante la vigenza della L. n. 230/1962, la quale non prevedeva alcuna decadenza per l’impugnazione di tali contratti. A seguito dell’introduzione del c.d. “Collegato Lavoro” (L. n. 183/2010), per contestare la regolarità di un contratto a tempo determinato il lavoratore è tenuto a rispettare il doppio termine decadenziale di 60 + 180 gg. (art. 32, co. 4), scaduto il quale non può più rivolgersi al giudice per accertare l’illegittimità del contratto o dei contratti di lavoro a termine sottoscritti.
I principi espressi dalla Cassazione, comunque, possiedono ancora rilevante attualità, poiché chiariscono come deve agire il giudice di merito quando è chiamato ad accertare la sussistenza o meno di una chiara e comune volontà delle parti di sciogliere il rapporto di lavoro che le lega.