Il datore di lavoro deve adottare anche le misure di sicurezza c.d. innominate
Nota a Cass. 13 giugno 2017, n. 14665
Flavia Durval
Con riguardo alla lesione della integrità fisica di un lavoratore (vigile urbano) causata da complicazioni infettive, bronchitiche e pleuritiche insorte in ragione dei fattori atmosferici sfavorevoli a cui era stato sottoposto, la Corte di Cassazione (13 giugno 2017, n. 14665) ha affermato che la violazione dell’art. 2087 c.c. prevede un generale “dovere di sicurezza” a carico del datore di lavoro che va interpretato in conformità con l’art. 32 Cost. (diritto alla salute) e con l’art. 41 Cost. (secondo cui l’iniziativa economica privata non può svolgersi in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana). Sicché, la disposizione del codice civile, “viene in considerazione con riguardo all’omissione di misure di sicurezza cosiddette “innominate”, e non in riferimento a misure di sicurezza espressamente e specificamente definite dalla legge o da altra fonte ugualmente vincolante”.
Relativamente a tali misure “innominate” la giurisprudenza consolidata ha precisato che la prova liberatoria a carico del datore di lavoro “è generalmente correlata alla quantificazione della misura della diligenza ritenuta esigibile, nella predisposizione delle indicate misure di sicurezza, imponendosi, di norma, al datore di lavoro l’onere di provare l’adozione di comportamenti specifici che, ancorché non risultino dettati dalla legge (o altra fonte equiparata), siano suggeriti da conoscenze sperimentali e tecniche, dagli standard di sicurezza normalmente osservati oppure trovino riferimento in altre fonti analoghe” (v. anche Cass. nn. 34/2016, 15082/2014).
Inoltre, per quanto concerne i pretesi errori e le eventuali lacune della consulenza tecnica d’ufficio, la Corte rileva che il vizio è suscettibile di esame in sede di legittimità “unicamente sotto il profilo del vizio di motivazione della sentenza, quando siano riscontrabili carenze o deficienze diagnostiche o affermazioni scientificamente errate e non già quando si prospettino semplici difformità tra la valutazione del consulente circa l’entità e l’incidenza del dato patologico e la valutazione della parte” (Cass. nn. 3307/2012, 22707/2010, 569/2011); né, tantomeno, quando si contrappongano alla consulenza tecnica d’ufficio disposta dal giudice contestazioni dirette, non già ad un riscontro della correttezza del giudizio formulato dal giudice di appello, bensì ad una diversa valutazione delle risultanze processuali. Tale profilo, infatti, “non rappresenta un elemento riconducibile al procedimento logico seguito dal giudice bensì costituisce semplicemente una richiesta di riesame del merito della controversia, inammissibile in sede di legittimità” (v. Cass. nn. 14374/2008, 15796/2004 e n. 7341/2004).
Il vizio, denunciabile in sede di legittimità, della sentenza che abbia prestato adesione alle conclusioni del consulente tecnico d’ufficio, è invece “ravvisabile in caso di palese devianza dalle nozioni correnti della scienza medica, la cui fonte va indicata, o nell’omissione degli accertamenti strumentali dai quali, secondo le predette nozioni, non può prescindersi per la formulazione di una corretta diagnosi, mentre al di fuori di tale ambito la censura costituisce mero dissenso diagnostico che si traduce in un’inammissibile critica del convincimento del giudice, e ciò anche con riguardo alla data di decorrenza della richiesta prestazione” (Cfr. per tutte ,Cass. nn. 23990/2014 e 1652/2012).