L’atto di recesso comunicato tramite messaggio telefonico è da equipararsi a quello irrogato tramite telegramma o posta elettronica e, in quanto tale, deve ritenersi dotato della necessaria forma scritta

Nota a Corte App. Firenze 5 luglio 2016, n. 629

Gennaro Ilias Vigliotti

Il ricorso al messaggio telefonico (c.d. “sms”, “short message service”) per inviare una comunicazione di licenziamento non vìola il disposto dell’art. 2, co. 1, L. n. 604/1966, secondo cui l’atto di recesso del datore di lavoro deve sempre rispettare la forma scritta, pena l’inefficacia del provvedimento stesso. La comunicazione via “sms”, infatti, può essere assimilata al telegramma dettato telefonicamente all’addetto postale o ad un messaggio di posta elettronica, dinanzi ai quali, se non c’è contestazione circa la provenienza e la paternità della comunicazione, il lavoratore non può invocare la violazione del requisito della forma scritta.

Questo principio di diritto è stato affermato dalla Corte d’Appello di Firenze, Sezione Lavoro, nella sentenza n. 629 del 5 luglio 2016, resa nell’ambito del giudizio d’appello promosso da un’azienda che in primo grado era stata condannata a reintegrare il lavoratore licenziato tramite una comunicazione effettuata con il ricorso ad un messaggio telefonico. I giudici del Tribunale di Firenze avevano infatti valutato la forma “sms” non idonea a garantire l’attribuibilità effettiva della volontà di recesso al datore di lavoro, conseguentemente giudicando il recesso sprovvisto della necessaria forma scritta.
La Corte, però, riformando la sentenza di primo grado, ha chiarito che, nel valutare la sussistenza o meno della forma scritta, il giudice di merito è tenuto ad accertare se la comunicazione è stata effettivamente intesa dal destinatario come comunicazione di un licenziamento e se, al momento della ricezione, il lavoratore non ha mai posto in dubbio che la comunicazione provenisse dal proprio datore di lavoro. Nel caso di specie, l’attribuibilità del messaggio al titolare dell’azienda non era mai stata posta in discussione dal dipendente licenziato, che, infatti, aveva immediatamente e ritualmente proceduto ad impugnarlo stragiudizialmente, ai sensi dell’art. 6, co. 1, L. n. 604/1966.
Per giungere alla propria decisione, la Corte d’Appello di Firenze ha assimilato il licenziamento intimato via “sms” a quello comunicato via telegramma telefonico o via posta elettronica. Con riferimento al primo mezzo di trasmissione, la Corte di Cassazione ha più volte ribadito che il telegramma dettato per mezzo dell’apposito servizio telefonico vale come forma scritta di licenziamento ogniqualvolta sia provata (anche tramite testimoni) o non venga contestata l’effettiva provenienza del telegramma dall’autore apparente della dichiarazione, cioè il datore di lavoro (in questo senso, tra le tante, Cass. n. 10291/2005; Cass. n. 9790/2003; Cass. n. 1969/2003; Cass. 7620/2001). Per quanto riguarda la posta elettronica, invece, è il Codice dell’amministrazione digitale (D. Lgs. n. 82/2005) a prevedere che “l’idoneità del documento informatico a soddisfare il requisito della forma scritta e il suo valore probatorio sono liberamente valutabili in giudizio, tenuto conto delle sue caratteristiche oggettive di qualità, sicurezza, integrità ed immodificabilità” (art. 20, co. 1-bis).
Alla luce delle caratteristiche tecniche del telegramma telefonico e della posta elettronica, dunque, i giudici di secondo grado hanno deciso nel senso di equiparare a quest’ultimi anche il messaggio di testo inviato con il cellulare, considerandolo efficace ogniqualvolta non sia in discussione la comprensibilità del suo contenuto e la sua effettiva attribuibilità al datore di lavoro.

E’ valido il licenziamento intimato via sms
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