Le operazioni di computo delle assenze o la valutazione di eventuali possibilità di ricollocamento del dipendente possono legittimare una ragionevole attesa
Nota a Cass. 4 luglio 2017, n. 16392
Gennaro Ilias Vigliotti
La malattia del lavoratore dipendente che si prolunghi sino a superare il c.d. periodo di comporto – ossia quell’arco temporale stabilito dai contratti collettivi nazionali di lavoro entro il quale si ha diritto alla conservazione del posto – autorizza il datore ad intimare immediatamente un licenziamento con preavviso.
Cionondimeno, l’imprenditore può decidere di attendere il rientro del dipendente, al fine sia di svolgere accuratamente le operazioni di computo per l’accertamento dell’effettivo superamento del comporto, sia di sperimentare se residuino in concreto possibilità di riutilizzo del lavoratore all’interno dell’assetto organizzativo aziendale. In tali casi, solo a decorrere dal rientro effettivo in servizio, l’eventuale prolungata inerzia datoriale nel recedere dal rapporto può oggettivamente costituire il sintomo della volontà di rinuncia al potere di licenziamento e, conseguentemente, ingenerare un corrispondente incolpevole affidamento da parte del dipendente. L’onere di provare tale affidamento grava sul lavoratore, in quanto fatto estintivo del potere di recesso attribuito dalla legge al datore di lavoro.
Questi principi sono stati di recente affermati dalla sentenza della Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, 4 luglio 2017, n. 16392, che ha giudicato il caso di un lavoratore licenziato 35 giorni dopo il suo rientro dalla malattia, in ragione dell’accertato superamento del periodo di comporto.
I giudici delle prime due fasi di merito avevano sostenuto che l’intervallo temporale trascorso tra il rientro nel posto di lavoro e la comunicazione del recesso aveva determinato un incolpevole affidamento del lavoratore nella prosecuzione del rapporto e nella volontà del datore di lavoro di rinunciare alla facoltà di recedere, attesa l’assenza di prova circa le circostanze che avrebbero potuto escludere tale implicita intenzione di mantenere in vita il rapporto (quali, ad esempio, la dimensione aziendale, la complessità della sua organizzazione, o la compatibilità dello stato di salute del lavoratore con le mansioni attribuitegli).
L’azienda soccombente aveva quindi impugnato la decisione dinanzi alla Cassazione, rilevando che l’onere della prova del legittimo affidamento circa la tacita volontà di rinuncia al recesso grava sempre sul lavoratore, il quale è chiamato a fornire tutti gli elementi utili ad accertare l’estinzione del diritto del datore di lavoro al licenziamento e che, ad ogni modo, risultavano acquisite sia la dimensione considerevole dell’azienda (oltre 160.000 dipendenti) che la complessità strutturale della sua organizzazione (14.000 uffici dislocati in tutto il mondo).
I giudici di legittimità, accogliendo il ricorso presentato dal datore, hanno affermato che l’attesa dopo il rientro del lavoratore dalla malattia, se priva degli elementi che ne giustifichino la durata (come, appunto, la dimensione e la struttura dell’azienda), può generare il legittimo affidamento del lavoratore circa la rinuncia dell’imprenditore al licenziamento per superamento del comporto. Tale circostanza, però, va sempre provata, in maniera rigorosa, dal lavoratore, trattandosi di fatto estintivo del potere di licenziamento attribuito dalla legge al datore di lavoro. Nel caso di specie, la grandezza delle dimensioni aziendali e l’estensione della sua organizzazione avrebbero dovuto far ritenere i 35 giorni attesi dall’azienda per recedere dal contratto non sufficienti per configurare una rinuncia tacita al potere di far valere l’accertato superamento del periodo di comporto, con la conseguenza di dichiarare legittimo il licenziamento intimato.