Nel lavoro alle dipendenze della Pubblica Amministrazione, l’interesse del datore ad avviare la procedura sanzionatoria nei confronti del lavoratore permane anche dopo la cessazione del rapporto
Nota a Cass. ord. 28 luglio 2017, n. 18849
Gennaro Ilias Vigliotti
La cessazione del rapporto di lavoro nel pubblico impiego privatizzato non estingue il procedimento disciplinare già avviato quando l’infrazione commessa dal lavoratore preveda la sanzione del licenziamento o, nelle more del procedimento stesso, sia stata disposta la sospensione cautelare. L’Amministrazione, dunque, nonostante il dipendente si sia dimesso o sia stato posto in quiescenza, può continuare a coltivare l’azione disciplinare, portandola fino al suo compimento, con la conseguenza che ogni provvedimento sanzionatorio eventualmente adottato dispiegherà esclusivamente gli effetti giuridici ed economici non preclusi dallo scioglimento del rapporto di lavoro.
Anche se il contratto non è più in essere, quindi, il datore di lavoro pubblico è comunque portatore di un interesse all’esercizio del potere disciplinare, rappresentato, secondo la giurisprudenza di legittimità, dalla salvaguardia di interessi collettivi di rilevanza costituzionale, quali, ad esempio, quello alla tutela dell’immagine o dell’integrità patrimoniale (di recente, si v. Cass. n. 17307/2016; Cons. Stato n. 477/2006).
I principi appena espressi sono stati introdotti, per la prima volta, nell’ordinamento giuridico dal D. Lgs. n. 150/2009 (c.d. “Riforma Brunetta”), che ha inserito nel corpo del D. Lgs. n. 165/2001 (c.d. “Testo Unico del Pubblico Impiego”) l’art. 55-bis, co. 9, secondo il quale “in caso di dimissioni del dipendente, se per l’infrazione commessa è prevista la sanzione del licenziamento o se comunque è stata disposta la sospensione cautelare dal servizio, il procedimento disciplinare ha egualmente corso […] e le determinazioni conclusive sono assunte ai fini degli effetti giuridici non preclusi dalla cessazione del rapporto di lavoro”.
Le regole del Testo Unico sono state recentemente oggetto di riforma con il D.Lgs. n. 75/2017, che ha riscritto l’art. 55-bis. Il comma 9 in analisi, però, sebbene semplificato nella formulazione, continua a stabilire il medesimo principio di diritto: “la cessazione del rapporto di lavoro estingue il procedimento disciplinare salvo che per l’infrazione commessa sia prevista la sanzione del licenziamento o comunque sia stata disposta la sospensione cautelare dal servizio. In tal caso le determinazioni conclusive sono assunte ai fini degli effetti giuridici ed economici non preclusi dalla cessazione del rapporto”.
Una recente ordinanza della Sezione Lavoro della Corte di Cassazione (la n. 18849 del 28 luglio 2017) offre l’opportunità di analizzare un caso di concreta applicazione delle norme richiamate. Un dipendente dell’Agenzia delle Entrate, sospeso cautelarmente a seguito del suo rinvio a giudizio per fatti penalmente rilevanti e collocato a riposo nelle more di tale sospensione, chiedeva all’Autorità giudiziaria, una volta ottenuta una sentenza di proscioglimento per prescrizione, di riconoscergli le differenze retributive tra l’assegno percepito durante la sospensione illegittimamente subita e la retribuzione piena spettante in assenza della misura interdittiva. In particolare, il lavoratore lamentava che l’Amministrazione avrebbe fatto spirare, senza avviare alcuna procedura disciplinare, il termine massimo di 180 gg. previsto dalla legge per avviare (o continuare) l’azione disciplinare quando il lavoratore rinviato a giudizio non sia stato prosciolto con assoluzione piena (art. 55-ter, co. 4, D. Lgs. n. 165/2001). Tale circostanza aveva fatto decadere l’Agenzia dal potere disciplinare, con la conseguenza che la sospensione cautelare, funzionalmente collegata allo stesso, era divenuta illegittima. Per queste ragioni, chiedeva le differenze sugli emolumenti spettanti ma non percepiti durante quel periodo.
Dopo una prima sentenza di diniego da parte del Tribunale, la Corte d’Appello accoglieva le istanze del dipendente, accertando il suo diritto alle differenze retributive poiché l’Amministrazione, non esercitando il potere disciplinare entro i termini prescritti, era decaduta da tale potere, travolgendo conseguentemente la legittimità della sospensione cautelare in precedenza disposta.
Avverso tale ultima decisione aveva proposto ricorso in Cassazione l’Agenzia delle Entrate, lamentando che il mancato esercizio del potere disciplinare era da ricondursi alla circostanza del collocamento a riposo del dipendente, con la conseguente impossibilità, non imputabile all’Amministrazione, di procedere alla sanzione per avvenuta cessazione del rapporto.
La Corte di Cassazione, con l’ordinanza in commento, ha ribadito, in linea con quanto stabilito dall’art. 55-bis, co. 9, D.Lgs. n. 165/2001 (nella versione ratione temporis applicabile alla controversia, ossia quella precedente alle modifiche del 2017) che la circostanza del collocamento a riposo del lavoratore nelle more di una sospensione cautelare o di un procedimento disciplinare non osta all’avvio o al proseguimento dell’azione disciplinare, poiché, nel pubblico impiego privatizzato, “l’interesse all’esercizio del potere disciplinare da parte della pubblica amministrazione permane […], anche per finalità che trascendono il rapporto di lavoro già cessato, poiché il datore pubblico è pur sempre tenuto ad intervenire a salvaguardia di interessi collettivi di rilevanza costituzionale, nei casi in cui vi sia un rischio concreto di lesione della sua immagine”. Quando il lavoratore è stato prosciolto per prescrizione, dunque, pur non essendo più dipendente dell’Agenzia, quest’ultima era ancora nelle piene condizioni per esercitare il proprio potere disciplinare “postumo”, al fine di verificare l’effettiva sussistenza dell’illecito che aveva dato causa alla sospensione cautelare.