Quando il provvedimento che chiude la prima fase sommaria ha natura decisoria, questo può essere impugnato in appello, senza il necessario esperimento della opposizione intermedia prevista dalla L. n. 92/2012
Nota a Cass. 27 giugno 2017, n. 15976
Gennaro Ilias Vigliotti
Per stabilire se un provvedimento giurisdizionale abbia natura di ordinanza o di sentenza occorre avere riguardo non già alla forma adottata dal giudice, ma al suo contenuto specifico. Secondo il consolidato indirizzo della Corte di Cassazione, infatti, ai fini della corretta identificazione del mezzo di impugnazione esperibile contro un provvedimento giurisdizionale, laddove la forma adottata diverga rispetto a quella prescritta dal legislatore, non rivestono rilievo preminente le caratteristiche formali del provvedimento giurisdizionale, bensì il suo contenuto sostanziale, trattandosi di sentenza, e non di ordinanza, ogni qualvolta il giudicante, nell’esercizio del suo potere giurisdizionale, definisca la controversia con i caratteri della decisività e definitività (ex plurimis, Cass. n. 8467/2017; Cass. n. 14222/2016; Cass. n. 13923/2015; Cass. n. 21217/2014).
I principi appena rassegnati sono applicabili anche al rito speciale in materia di licenziamenti introdotto dalla L. n. 92/2012 (c.d. “Rito Fornero”): tale procedura, come noto, prevede una prima fase divisa in due distinti giudizi, uno sommario ed uno a cognizione piena, entrambi incardinanti dinanzi al medesimo giudice (art. 1, co. 47 ss.). Il primo giudizio, caratterizzato da tempi brevi e da istruttoria sommaria, si conclude di regola con ordinanza, che la parte soccombente può impugnare, entro un breve termine (30 gg. dalla pubblicazione e comunicazione del provvedimento), dinanzi allo stesso giudice, che stavolta decide con sentenza e con cognizione piena (art. 1, co. 57). Quest’ultima decisione, poi, può essere sottoposta al vaglio della Corte d’Appello, tramite apposito reclamo (art. 1, co. 58).
Ebbene, una recente sentenza della Sezione Lavoro della Corte di Cassazione (la n. 15976 del 27 giugno 2017) si è occupata dell’interessante caso di un procedimento incardinato ai sensi dell’art. 1, co. 48, L. n. 92/2012, all’esito del quale il giudice della prima fase sommaria aveva deciso con sentenza e non con ordinanza. La parte soccombente, saltando la seconda fase di cognizione dinanzi al medesimo giudice, si era rivolta direttamente alla Corte d’Appello, la quale aveva giudicato il ricorso inammissibile, in quanto adottato in violazione della speciale procedura dettata per il “Rito Fornero”: secondo la Corte, infatti, la sentenza della fase sommaria, pur non rispettando la forma prescritta dalla legge, era comunque da considerarsi in realtà un’ordinanza, in quanto tale da impugnare necessariamente dinanzi al medesimo giudice, nei tempi previsti dalla L. n. 92/2012, consentendo così una integrazione piena ed effettiva della cognizione giudiziaria.
I giudici di legittimità, però, non hanno condiviso tale impostazione, accogliendo il ricorso presentato dalla parte soccombente in appello. In particolare, la Corte Suprema ha affermato che il provvedimento con il quale il Tribunale, all’esito della fase sommaria, aveva deciso la controversia, oltre a possedere la veste formale della sentenza, ne possedeva anche gli elementi sostanziali qualificativi, avendo deciso totalmente il merito delle questioni ad essa devolute con motivazione approfondita ed analitica, all’esito di una cognizione che era stata tutt’altro che sommaria, poiché caratterizzata dall’escussione di tutti i testimoni addotti dalle parti e dalla concessione alle stesse di termine per il deposito di note difensive. Secondo la Cassazione, dunque, il fatto che si tratti di provvedimento giurisdizionale giunto all’esito della prima fase sommaria, non osta alla sua qualificazione come decisione definitiva, impugnabile direttamente in appello. La doppia fase “Fornero”, infatti, serve a garantire celerità ed insieme completezza nella valutazione giurisdizionale, e non è necessaria ogniqualvolta sia già la prima fase a fornire al giudice una rappresentazione completa ed esaustiva dei fatti e delle circostanze di cui è causa.
In tale quadro, l’impugnazione diretta in Corte d’Appello di un provvedimento che ha deciso il merito a cognizione piena e con la forma della sentenza, nonostante il procedimento fosse stato incardinato secondo una procedura prevista dalla legge come sommaria, non si pone in discontinuità con i capisaldi del c.d. “Rito Fornero”, fondato sull’esigenza di garantire tempi rapidi di decisione circa la legittimità di un licenziamento. Il ricorso in appello, dunque, è da considerarsi strumento idoneo per l’impugnazione di decisioni giudiziali di questo tipo.