La c.d. “indennità di disagio” rientra nelle voci della retribuzione che compongono il trattamento di fine rapporto (TFR), qualora tale somma sia presente in busta paga in maniera non occasionale e non sia esclusa dal computo dalla contrattazione collettiva
Nota a Cass. 25 settembre 2017, n. 22291
Alfonso Tagliamonte
Alla risoluzione del rapporto di lavoro, il prestatore riceve un’indennità (denominata Trattamento di Fine Rapporto o TFR) composta da quote di retribuzione accantonate dal datore di lavoro durante la vigenza del rapporto e corrisposta al dipendente alla estinzione cessazione dello stesso. Il diritto al credito da parte del lavoratore sorge e si perfeziona, quindi, soltanto al momento della risoluzione del rapporto di lavoro.
Non tutte le voci stipendiali entrano, però, a far parte del TFR, che si determina sommando, per ciascun anno di lavoro, una quota pari all’importo della retribuzione “onnicomprensiva” annua, divisa per un numero fisso: 13,5 (art. 2120, co. 1, secondo capoverso, c.c.).
Al fine di stabilire quale sia la retribuzione utile per il calcolo del TFR è necessario, quindi, chiarire il significato di “onnicomprensivo”. Con tale aggettivazione, il legislatore intende “tutte le somme, compreso l’equivalente delle prestazioni in natura, corrisposte in dipendenza del rapporto di lavoro, a titolo non occasionale e con esclusione di quanto è corrisposto a titolo di rimborso spese”, salvo diversa previsione dei contratti collettivi (art. 2120, co. 2, c. c.).
Tale principio è stato confermato dalla Cassazione con la sentenza 25 settembre 2017, n. 22291, la quale ha rilevato la correttezza della decisione del giudice di merito che inseriva “l’indennità di disagio” tra gli emolumenti utili alla determinazione dell’indennità di fine rapporto. Infatti, tale voce retributiva viene erogata al dipendente “a titolo di corrispettivo per la maggiore gravosità della prestazione di lavoro straordinario” e, inoltre, “tale voce non rientra in alcuna delle ipotesi di esclusione degli accantonamenti previste dall’art. 2120 c. c. o dalla contrattazione collettiva”. Infine, la Suprema Corte ha sostenuto che a nulla importa che le voci stipendiali siano “fittizie” (così come definite dall’impresa ricorrente), ovvero non legate ad una concreta e continua attività del prestatore. Per la determinazione del TFR, infatti, non è necessario che i compensi siano continuativi e corrispettivi a prestazioni effettivamente fornite, ma che gli stessi compensi siano attribuiti al lavoratore in maniera non occasionale.