La condotta molesta ed oppressiva reiteratamente posta in essere nei confronti di un dipendente è punibile come atto persecutorio ai sensi dell’art. 612 bis c.p.
Nota a Cass., sez. V penale, 19 luglio 2017, n. 35588
Francesco Belmonte
La persecuzione di un dipendente può costituire reato di stalking. Lo ha affermato la Cassazione (sez. V penale, 19 luglio 2017, n. 35588) condannando il responsabile di un servizio comunale (gestore di una biblioteca) per la persecuzione posta in essere con atteggiamenti oppressivi a sfondo sessuale nei confronti di una lavoratrice sua subordinata. Tale condotta aveva causato nella lavoratrice/vittima uno stato di disagio e prostrazione psicologica e, sebbene, sotto il profilo processuale, l’iniziale capo di imputazione fosse quello di violenza privata, nel corso dei dibattimento questo veniva modificato in atti persecutori produttivi di un apprezzabile turbamento, configurandosi il reato di stalking ogni qualvolta determinate condotte, anche se non violente, producono in chi le subisce un apprezzabile turbamento (nel caso in esame la lavoratrice aveva accumulato disagio e prostrazione psicologica) (art. 612 bis c.p.).
Nella fattispecie, il datore di lavoro ha dovuto risarcire, in solido con lo stalker, i danni patiti dalla vittima. La sentenza ha precisato infatti che, sebbene alcune manifestazioni della violenza morale si fossero verificate all’esterno della biblioteca, non doveva ritenersi esclusa l’”occasione lavorativa” della persecuzione, con la conseguente estensione al Comune titolare della biblioteca della responsabilità per i danni causati alla dipendente.
Le condotte, peraltro, si sono protratte per diversi anni e l’abitualità del reato ha escluso la decorrenza del termine prescrizionale per il suo perseguimento.
In particolare, la Corte ha precisato che integrano il delitto di atti persecutori anche due sole condotte fra quelle descritte dall’art. 612 bis c.p., “come tali idonee a costituire la reiterazione richiesta dalla norma incriminatrice” (v. Cass. 5 giugno 2013, n. 46331). “Invece, un solo episodio, per quanto grave e da solo anche capace, in linea teorica di determinare il grave e persistente stato d’ansia e di paura che è indicato come l’evento naturalistico del reato, non è sufficiente a determinare la lesione del bene giuridico protetto dalla norma in esame, potendolo essere, invece, alla stregua di precetti diversi… Il delitto, inoltre, è configurabile anche quando le singole condotte sono reiterate in un arco di tempo molto ristretto, a condizione che si tratti di atti autonomi e che la reiterazione di questi sia la causa effettiva di uno degli eventi considerati dalla norma incriminatrice…” (v. Cass. 16 giugno 2015, n. 33563).
Nel caso di specie, i giudici hanno colto l’essenza dell’incriminazione nella reiterazione degli atti. È “alla condotta persecutoria nel suo complesso che deve guardarsi per valutarne la tipicità anche sotto il profilo della produzione dell’evento richiesto per la sussistenza del reato”. Ciò, in quanto, anche se il risultato di tale condotta si manifesta soltanto a seguito dell’ennesimo atto persecutorio, è proprio dalla suddetta reiterazione che “deriva alla vittima un progressivo accumulo di disagio che, solo alla fine ella sequenza, degenera in uno stato di prostrazione psicologica in grado di manifestarsi in una delle forme previste dalla norma incriminatrice” (v. Cass. 29 aprile 2014, n. 24021).
In base all’art. 612-bis c. p. (Atti persecutori):
“Salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni chiunque, con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita.
La pena è aumentata se il fatto è commesso dal coniuge, anche separato o divorziato, o da persona che è o è stata legata da relazione affettiva alla persona offesa ovvero se il fatto è commesso attraverso strumenti informatici o telematici.
La pena è aumentata fino alla metà se il fatto è commesso a danno di un minore, di una donna in stato di gravidanza o di una persona con disabilità di cui all’articolo 3 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, ovvero con armi o da persona travisata.
Il delitto è punito a querela della persona offesa. Il termine per la proposizione della querela è di sei mesi. La remissione della querela può essere soltanto processuale. La querela è comunque irrevocabile se il fatto è stato commesso mediante minacce reiterate nei modi di cui all’articolo 612, secondo comma. Si procede tuttavia d’ufficio se il fatto è commesso nei confronti di un minore o di una persona con disabilità di cui all’articolo 3 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, nonché quando il fatto è connesso con altro delitto per il quale si deve procedere d’ufficio”.