La critica del lavoratore deve essere veritiera (c.d. continenza sostanziale) ed esposta in maniera misurata (c.d. continenza formale) anche se sono ammissibili espressioni astrattamente offensive e soggettivamente sgradite alla persona cui sono riferite

Nota a Cass. 30 ottobre 2017, n. 25759

 

Alfonso Tagliamonte

Il diritto di critica deve rispettare il principio di continenza sostanziale (secondo cui i fatti narrati devono corrispondere a verità) e quello di continenza formale (secondo cui l’esposizione dei fatti deve avvenire in maniera misurata); “nella valutazione del legittimo esercizio del diritto di critica, il requisito della continenza c.d. formale, comportante anche l’osservanza della correttezza e civiltà delle espressioni utilizzate, è attenuato dalla necessità, ad esso connaturata, di esprimere le proprie opinioni e la propria personale interpretazione dei fatti, anche con espressioni astrattamente offensive e soggettivamente sgradite alla persona cui sono riferite (cfr. Cass. n. 465/1996 nonché Cass. n. 5947/1997)”.

Così si è espressa la Corte di Cassazione (30 ottobre 2017, n. 25759), confermando la sentenza della Corte di appello di Roma (n. 1763/2015, depositata l’11 marzo 2015, in riforma della sentenza del Tribunale di Velletri) che aveva dichiarato illegittimo il licenziamento per giusta causa intimato ad un lavoratore, a causa della sottoscrizione, insieme con altri prestatori, di un esposto, indirizzato alla Procura della Repubblica di Velletri e al Ministero del Lavoro, con il quale accusava la società “di aver fatto un uso fraudolento degli ammortizzatori sociali, di sfruttare lavoratori extracomunitari, trattandoli in maniera degradante, e di utilizzare prodotti non lavorati interamente dai dipendenti con riflessi sulla qualità della produzione aziendale”.

Nello specifico, la Corte di merito, escludendo che il lavoratore “avesse diffuso la notizia nell’ambiente di lavoro o avesse artatamente provocato la risonanza mediatica della denuncia”, aveva considerato insufficiente, ai fini della giusta causa di recesso, la non veridicità delle accuse, e ritenuto necessaria la “dimostrazione che il lavoratore avesse volontariamente accusato l’azienda allo scopo di danneggiarla o avesse superato la soglia del rispetto della verità oggettiva con colpa grave o dolo”.

Sul punto, i giudici di legittimità hanno ritenuto che la conclusione cui è pervenuto il giudice di merito si è attenuta ai suesposti principi, sottolineando che:

  1. “i fatti segnalati nell’esposto all’autorità giudiziaria riprendevano il contenuto di documenti già divulgati dalla stampa e discussi in varie sedi istituzionali, traducendosi nell’istanza di vaglio di una situazione di massiccio ricorso della società agli ammortizzatori sociali, pure a fronte di un andamento estremamente positivo dell’attività produttiva”;
  2. “l’esposto sottoscritto dal lavoratore, pur nell’asprezza di taluni passaggi, era stato stilato nel rispetto dei canoni di continenza formale, dovendo ritenersi l’uso di termini quali “illecito” o “truffa” coerente con la funzione della denuncia e il ricorso a qualche espressione colorita giustificato dallo stato di esasperazione e dalla pressione psicologica nei confronti di lavoratori sospesi in CIGS e che rischiavano il posto per una gestione che si riteneva sbagliata e illecita”.

In tema, v., in questo sito, F. ALBINIANO, Contenuto e limiti del diritto di critica del lavoratore; Cass. 16 febbraio 2017, n. 4125, con nota di A. BREVAL, Diritto di critica e licenziamento per giusta causa; Cass. 17 gennaio 2017, n. 996, con nota di   M.N. BETTINI, Dovere di diligenza, interesse dell’impresa e diritto di critica; Cass. 25 ottobre 2016, n. 21649, con nota di M. SANTUCCI, Contenuto e limiti del diritto di critica del lavoratore; App. Napoli 27 settembre 2016, con nota di C. AMBROSIO, I limiti al diritto di critica del lavoratore.

Limiti al diritto di critica
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