Il contratto di prestazione professionale medico-specialistica non configura un rapporto di lavoro subordinato, salvo la prova dei relativi requisiti

 Nota a App. Milano 19 luglio 2017

 Maria Novella Bettini

Il contratto di prestazione professionale medico-specialistica, in forza del quale un Centro medico si impegna “a mettere a disposizione del medico i locali e le attrezzature del proprio centro sanitario, nonché l’assistenza infermieristica ed il servizio di segreteria e prenotazione a fronte dell’impegno a svolgere la propria attività professionale di medico specialista presso il centro sanitario, nei giorni convenuti di disponibilità ed in relazione alle richieste di prestazioni ricevute dal Centro” non concretizza un rapporto di lavoro di natura subordinata. Ciò, a meno che non si dimostri in concreto l’elemento della subordinazione e laddove dall’analisi del contratto non emerga la volontà delle parti di regolare in tal senso i reciproci interessi.

Queste interessanti affermazioni sono state espresse dalla Corte di Appello di Milano (sez. lavoro, 19 luglio 2017, di conferma di Trib. Milano n. 740/2017), in relazione al ricorso di una dott.ssa volto all’accertamento della natura subordinata del rapporto di lavoro avente ad oggetto lo svolgimento di attività medica specialistica nel settore ostetrico-ginecologico presso un Centro medico.

I giudici hanno ribadito il principio (consolidato in giurisprudenza) che è possibile “pervenire ad una diversa qualificazione soltanto se si dimostra in concreto l’elemento della subordinazione, intesa quale vincolo di natura personale, che assoggetta il prestatore di lavoro al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro, che deve estrinsecarsi nella specificazione della prestazione lavorativa richiesta in adempimento delle obbligazioni assunte dal prestatore medesimo”, ad esempio fissando unilateralmente e puntualmente l’orario di lavoro. (cfr. Cass. 28 settembre 2006, n. 21028; Cass. 22 novembre 1999, n. 12926 cit.).

A tale proposito, relativamente al criterio di sottoposizione alle direttive del datore di lavoro (c.d. eterodirezione della prestazione), invocato dalla ricorrente, il Tribunale ha rilevato che, nel caso di specie, non possono essere considerati espressione di eterodirezione:

a) né l’emanazione di direttive di carattere generale ed il riscontro successivo dell’esatto adempimento delle prestazioni convenute. Queste, infatti, sono riscontrabili anche nel rapporto di lavoro autonomo in cui il committente impartisce istruzioni in ordine al contenuto e agli obiettivi dell’incarico affidato al lavoratore e quest’ultimo, a sua volta, deve dare conto dell’attività svolta (cfr. Cass. 22 agosto 2003, n. 12348);

b) né il vincolo di soggezione derivante dall’inserimento del lavoratore all’interno dell’organizzazione aziendale. I giudici hanno poi rilevato che “durante la collaborazione la convenuta prestava, pacificamente, attività professionale anche presso altri studi medici e strutture sanitarie private concorrenti della convenuta, circostanza, questa, in contrasto con l’asserita natura subordinata del rapporto di lavoro, nel quale vige l’obbligo di fedeltà del prestatore di lavoro ai sensi dell’art. 2104 c.c.”;

c) né la pretesa costanza del corrispettivo pagato a scadenze fisse, dal momento che il compenso era variabile fra un minimo e un massimo in ragione del numero e della tipologia di prestazioni concretamente effettuate e calcolato sulla base delle tariffe per prestazioni allegate al contratto ed approvate dalle parti e che il tempo del pagamento è indifferente;

d) né la disponibilità di fascia oraria. A tale riguardo, è risultato che la lavoratrice aveva svolto la propria attività nei giorni e nelle fasce orarie concordate all’inizio della collaborazione e attraverso successivi accordi, con orari di svolgimento della prestazione non imposti unilateralmente dalla società, ma decisi di comune accordo dalle parti. Infatti, “nel caso in cui non intendesse prestare attività in uno dei giorni concordati, la ricorrente (al pari degli altri medici operanti presso il centro sanitario) poteva farlo, comunicando l’assenza con anticipo trimestrale”; mentre, nell’eventualità in cui fossero già state prenotate visite, era tenuta a chiedere l’autorizzazione alla convenuta. Nel caso in esame, con il “contratto di prestazione professionale del medico specialista” le parti si sono accordate per una fascia di disponibilità settimanale entro la quale fissare gli appuntamenti “al solo scopo di poter correttamente organizzare e gestire le prestazioni specialistiche a favore dei pazienti”, fascia oraria inizialmente pattuita per tre ore settimanali… e nel corso del rapporto variata dalle 3 alle 12 ore settimanali, pacificamente sempre su accordo fra le parti. Il diniego, poi, di spostare gli appuntamenti già fissati quando si fossero creati dei vuoti (ossia il rifiuto di compattare le agende), secondo i giudici, “appare coerente con gli standard che il Centro intendeva garantire e con le espresse pattuizioni contrattuali che regolano la mancanza di pazienti e lo spostamento delle fasce di disponibilità oraria settimanale” Tale diniego, inoltre, non è parso in contrasto con la clausola del contratto che garantisce la libertà del medico “di determinare le modalità di espletamento della prestazione secondo il proprio personale giudizio tecnico e professionale “….nel rispetto delle pattuizioni concordate ” che, comprendevano le modalità di gestione degli appuntamenti nell’ambito delle fasce orarie concordate”;

e) né la richiesta ai medici di comunicare con preavviso eventuali assenze, né il tendenziale rifiuto di spostare appuntamenti già fissati;

f) e la mancata possibilità di modificare o cancellare gli appuntamenti già fissati, se non attraverso autorizzazione dell’amministratore;

g) né l’indicazione (da parte del Centro ai medici) della durata “standard” della visita e l’invito agli stessi a rispondere alle e-mail dei pazienti in tempi “ragionevolmente celeri”;

h) e tantomeno una pretesa volontà delle parti nel senso della subordinazione. In proposito, il Tribunale osserva che, qualora “la conformazione fattuale del rapporto appaia dubbia, non ben definita o non decisiva” (come nel caso in questione), occorre svolgere un’indagine accurata sulla volontà delle parti espressa in sede di costituzione del rapporto (v. Cass. 23 luglio 2004, n. 13884).

Secondo la consolidata giurisprudenza di legittimità – ferme restando la tassatività e indisponibilità del tipo negoziale rapporto di lavoro subordinato – costituisce “criterio sussidiario di qualificazione del rapporto, anche la volontà delle parti, sempre che tale volontà non risulti contraddetta dalle concrete modalità di svolgimento del rapporto stesso” (cfr. da ultimo, Cass. 28 settembre 2006, n. 21028, cit.; Cass. 5 marzo 2001, n. 3200).

In particolare, la volontà delle parti deducibile dal contratto (c.d. nomen iuris) assume un ruolo determinante ai fini della qualificazione giuridica del rapporto “nelle ipotesi in cui si riscontri una accentuata flessibilità dei confini tra lavoro subordinato ed altre specifiche tipologie di rapporti lavorativi (ad esempio: lavoro autonomo, quale quello dei giornalisti, dei medici convenzionati o degli esercenti professioni intellettuali; lavoro in associazione in partecipazione; lavoro del socio di cooperativa) ed anche nelle ipotesi in cui, per le specifiche modalità dell’esercizio delle prestazioni e per la condizione di non debolezza economica (anche a seguito del trattamento economico e normativo pattuito), il lavoratore di fatto venga a trovarsi a fronte della controparte, finisca il lavoratore stesso per risultare più libero e meno condizionabile nella scelta delle regole cui voglia assoggettarsi nella prestazione della propria attività” (v. Cass. 26 agosto n. 2013, n. 19568).

Tutti gli elementi considerati, secondo il collegio giudicante, rispondono a “legittime scelte organizzativo-gestionali, essenzialmente finalizzate a non creare disagio ai pazienti, con ciò non eccedendo le esigenze di coordinamento dell’attività del medico con quella dell’impresa, atteso che “da un lato, la fissazione degli appuntamenti avveniva nell’ambito delle fasce orarie concordate e, dall’altro, il medico era libero di allontanarsi dal Centro negli intervalli tra una visita e l’altra, non avendo alcun obbligo di rimanere a disposizione della società né di essere reperibile”. Si è trattato cioè semplicemente della fissazione “di standard quali/quantitativi delle prestazioni concordate” e della “successiva verifica degli stessi”, lasciando peraltro liberi i medici di contattare i pazienti, utilizzando il canale da ciascuno di essi prescelto (e-mail istituzionale, e-mail personale o telefono cellulare).

Allo stesso modo, non è emerso alcun potere datoriale “conformativo” della prestazione (concretizzatosi in direttive circa il contenuto della prestazione, o nella sottoposizione a rigidi controlli), evidenziandosi per converso come la ricorrente fosse libera di effettuare o non effettuare determinate prestazioni (ad es. all’esame denominato “ultrascreen”), senza alcuna imposizione da parte del Centro.

Sicché, anche a fronte di alcuni “indici fattuali considerati sintomatici della subordinazione (essenzialmente la continuità della prestazione, l’inserimento nell’organizzazione della convenuta e l’utilizzo di strumenti di lavoro forniti da quest’ultima), “nel complesso le caratteristiche modali di espletamento della prestazione non appaiono univocamente riconducibili al tipo del rapporto di lavoro subordinato, risultando per converso pienamente compatibili con la qualificazione giuridica del rapporto operata dalle parti, quale contratto di prestazioni professionali”.

Attività medica specialistica e subordinazione (App. Milano 19 luglio 2017)
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