L’impegno lavorativo limitato non pregiudica il decorso della malattia e non giustifica il licenziamento

Nota a Corte di Cassazione 17 novembre 2017, n. 27333

Fabio Iacobone

Per giurisprudenza consolidata, il comportamento del dipendente che presta attività lavorativa durante il periodo di assenza per malattia costituisce giustificato motivo di recesso da parte del datore di lavoro solo se il comportamento del lavoratore è “di per sé sufficiente a far presumere l’inesistenza dell’infermità addotta a giustificazione dell’assenza, dimostrando una sua fraudolenta simulazione o quando, valutato in relazione alla natura ed alle caratteristiche dell’infermità denunciata ed alle mansioni svolte nell’ambito del rapporto di lavoro, sia tale da pregiudicare o ritardare, anche potenzialmente, la guarigione ed il rientro in servizio del lavoratore”.

In questo caso, infatti, la condotta del lavoratore integra una violazione dei doveri generali di correttezza e buona fede e degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà.

Diversamente, la marginalità dell’impegno lavorativo rende l’attività lavorativa durante la malattia, per un verso, inidonea a fondare la presunzione dell’inesistenza dell’infermità, e, per l’altro, compatibile con la prescrizione medica del riposo.

In applicazione di questo principio, la Corte di Appello di Firenze (10 febbraio 2015) confermata dalla Corte di Cassazione 17 novembre 2017, n. 27333, ha ritenuto illegittimo il licenziamento di un lavoratore che aveva svolto, durante un periodo di assenza per malattia, “attività lavorativa corrispondente a quella eseguita quale lavoratore dipendente (lavori di meccanica) in un proprio locale attiguo alla propria abitazione”, ordinandone la reintegrazione e disponendo in suo favore la condanna a titolo di risarcimento danni delle retribuzioni maturate e maturande dal licenziamento alla reintegra.

Attività lavorativa marginale durante la malattia
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