Non è configurabile il fenomeno del mobbing da parte di dirigente scolastico nei confronti di un’insegnante, se questa non prova adeguatamente la sistematicità della condotta e la sussistenza dell’intento emulativo o persecutorio
Nota a Cass. 15 novembre 2017, n. 27110
Giuseppe Rossini
“Ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro rilevano i seguenti elementi,…: a) una serie di comportamenti di carattere persecutorio – illeciti o anche leciti se considerati singolarmente – che, con intento vessatorio, siano posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi; b) l’evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente; c) il nesso eziologico tra le descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psico-fisica e/o nella propria dignità; d) l’elemento soggettivo, cioè l’intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi (v. Cass. n. 17698 del 2014)”.
È questo il principio di diritto che la Cassazione, con la sentenza 15 novembre 2017, n. 27110, ha posto a fondamento del rigetto del ricorso presentato da una insegnante di ruolo che chiedeva il risarcimento dei danni da mobbing e demansionamento per condotte vessatorie subìte da parte del dirigente scolastico e del personale docente.
In particolare, l’insegnante lamentava che nel corso degli anni scolastici 2000/2001, 2001/2002 e 2002/2003 era stata colpita da plurimi atti vessatori, tutti “collegati da un elemento teleologico comune, costituito dall’intento persecutorio”.
Le doglianze manifestate dall’insegnante, già rigettate nei precedenti gradi di giudizio, non hanno trovato accoglimento nemmeno in seno alla Corte di Cassazione, che ha rigettato, in toto, il ricorso, evidenziando che il lavoratore ha l’onere di provare, in applicazione del principio generale di cui all’art. 2697 c. c., tutti gli elementi che costituiscono la fattispecie del mobbing “e che implicano la necessità di una valutazione rigorosa della sistematicità della condotta e della sussistenza dell’intento emulativo o persecutorio che deve sorreggerla (Cass. 26 marzo 2010, n. 7382)”.
Nella vicenda in parola, così come emerso nel corso dell’istruttoria, la lavoratrice non aveva dimostrato in maniera esaustiva ed inconfutabile l’esistenza di un sistema vessatorio a suo danno. Dal quadro probatorio era emerso, piuttosto, che se vi era stato un atteggiamento a volte conflittuale nei confronti dell’insegnante da parte del dirigente scolastico e delle colleghe, ciò era dipeso dalle difficoltà di rapporti che si erano venuti a creare nel contesto lavorativo.
Inoltre, dalla consulenza tecnica d’ufficio espletata nel primo grado di giudizio, si evinceva una personalità vulnerabile della lavoratrice, che reagiva in maniera spropositata ogni qualvolta si verificavano eventi che disturbavano il suo equilibrio emozionale, pur non essendo particolarmente lesivi, ma fisiologici in ogni ambito lavorativo e di relazione.
A seguito di un quadro probatorio scarno di allegazioni e della CTU espletata, la domanda dell’insegnante non poteva trovare, dunque, accoglimento in quanto, come statuito dalla Cassazione a Sezioni Unite (sent. n. 8438/2004), il mobbing, pur se “generalmente riferito ad ogni ipotesi di pratiche vessatorie, poste in essere da uno o più soggetti diversi per danneggiare in modo sistematico un lavoratore nel suo ambiente di lavoro”, deve essere fondato sulla prova di un intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi.