Non è ammesso il cumulo dell’indennità di maternità nel caso in cui la madre eserciti la professione di avvocato e di insegnante
Nota a Cass. 16 novembre 2017, n. 27224
Kevin Puntillo
L’avvocato che, in ragione di un secondo impiego, goda di una prestazione di maternità erogata da un ente previdenziale diverso dalla Cassa Forense, non ha diritto di beneficiare (anche) del trattamento di maternità previsto da tale ente.
A stabilire il suddetto principio è la Corte di Cassazione con sentenza 16 novembre 2017, n. 27224, in merito al caso di una lavoratrice che svolgeva la professione di avvocato ed insegnante scolastico di ruolo part-time, la quale si era vista rigettare la domanda di corresponsione dell’indennità di maternità da parte della Cassa forense, considerato che tale indennità le veniva già corrisposta dall’INPDAP per il lavoro svolto come docente.
La Suprema Corte precisa che, ai sensi degli artt. 70 e 71 del T.U. n. 151/2001, il diritto di percepire l’indennità di maternità dalla Cassa Forense può essere richiesto a condizione che la lavoratrice ne faccia domanda, documenti lo stato di gravidanza e attesti l’inesistenza di altro trattamento di maternità come lavoratrice pubblica o autonoma. La finalità della norma, infatti, è quella di evitare il cumulo di prestazioni da parte di più enti previdenziali per lo stesso evento, quale la situazione di maternità, come peraltro previsto anche per altre prestazioni di natura assistenziale o previdenziale.
Secondo la Cassazione, l’indennità di maternità “serve ad assicurare alla madre lavoratrice la possibilità di vivere questa fase della sua esistenza senza una radicale riduzione del tenore di vita che il suo lavoro le ha consentito di raggiungere e ad evitare che alla maternità si ricolleghi una stato di bisogno economico”.
E la considerazione per cui la lavoratrice, nel caso in esame, abbia subìto una riduzione sensibile del tenore di vita precedentemente goduto, avendo ottenuto la sola prestazione a carico dell’INPDAP in relazione al rapporto di lavoro, di docente part-time, non appare risolutiva al fine di consentire un doppio trattamento di maternità da parte della Cassa Forense e dall’INPDAP. Ciò, per una serie di ragioni:
a) in primis, perché la determinazione del sistema indennitario rientra nella “discrezionalità del legislatore che è libero di modulare diversamente nel tempo e a seconda delle categorie di lavoratrici madri, il livello di tutela della maternità con misure di sostegno legate a fattori di variabilità incidenti ora sulla salvaguardia del livello di reddito delle fruitrici dell’indennità ora ad esigenze di bilancio, tenuto conto dell’incidenza quantitativa delle erogazioni che, per quanto riguarda la professione legale, è mutata rispetto ai primi anni di applicazione della legge” (così, Cass. n. 22023/2010);
b) in secondo luogo, poiché l’evoluzione della normativa, per effetto della L. n. 289 del 2003, evidenzia, stante l’introduzione di una misura massima per le l’indennità di maternità in favore delle libere professioniste, “la mancanza di correlazione stretta tra livelli retributivi goduti (e contributi erogati) e la misura della prestazione di maternità”
c) in terzo luogo, perché la sensibile riduzione del tenore di vita della lavoratrice è avvenuta per “scelta della stessa ricorrente che non ha optato per il trattamento offerto dalla Cassa, ma per quello dell’ente di previdenza pubblico, senza quindi usufruire degli ingenti (secondo la difesa della lavoratrice) contributi professionali versati. Ma questa conseguenza è stata il frutto di una decisione della stessa lavoratrice che – secondo la decisione impugnata – ha presentato domanda alla Cassa dopo aver già ottenuto il trattamento INPDAP e quindi senza una preventiva informazione sulla normativa del settore che avrebbe, con ogni probabilità, evitato questa penalizzante soluzione”.