La persecuzione del lavoratore che si rivolga al sindacato per la tutela dei propri interessi costituisce mobbing
Nota a Cass. 20 dicembre 2017, n. 30606
Caterina Cristina Chiaromonte
La lesione della personalità e dignità del lavoratore mediante una serie di condotte vessatorie finalizzate, anche attraverso l’esercizio abusivo del potere disciplinare, ad emarginare il dipendente e ad espellerlo dall’ambiente di lavoro integrano una condotta mobbizzante.
Come noto, ai fini della configurabilità del mobbing lavorativo devono ricorrere: a) “reiterati comportamenti di carattere persecutorio – illeciti o anche leciti se considerati singolarmente – che, con intento vessatorio, siano posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi: b) l’evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente; c) il nesso eziologico tra le descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psico-fisica e/o nella propria dignità; d) l’elemento soggettivo, cioè l’intento persecutorio unificante di tutti i componenti lesivi.” (Cass. 6 agosto 2014, n. 17698).
Ad affermarlo è la Corte di Cassazione (20 dicembre 2017, n. 30606), la quale, in linea con le pronunce dei Giudici di merito, ha ritenuto sussistenti simili indici nella condotta di un datore di lavoro che modifichi il proprio atteggiamento nei confronti di un dipendente, in seguito alla scelta di quest’ultimo di rivolgersi (con lettera del 10 settembre 2004) ad un’organizzazione sindacale per la tutela dei propri diritti.
L’azienda, come rilevato dalla Corte territoriale, aveva posto in essere una condotta (nel periodo intercorrente tra settembre 2004 – luglio 2005) vessatoria e persecutoria, diretta a demolire la personalità e la professionalità del prestatore, fino ad indurlo a rassegnare le dimissioni.
Nella specie, il dipendente era stato ingiustificatamente: 1) spostato in un differente reparto, con conseguente pregiudizio patrimoniale; b) emarginato ed isolato nell’ambiente di lavoro; c) sottoposto ad un abusivo esercizio del potere disciplinare da parte della società, che lo aveva sanzionato con una multa di “due ore di paga base e contingenza” e con un “biasimo scritto” (sanzioni, poi, annullate dal giudice di primo grado); d) costretto a dimettersi.
Peraltro, “incombe al lavoratore che lamenti di avere subito, a causa dell’attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l’onere di provare l’esistenza di tale danno, come pure la nocività dell’ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l’uno e l’altro, mentre se vi sia stata prova di tali circostanze sussiste per il datore di lavoro l’onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno e che la malattia del dipendente non sia ricollegabile alla inosservanza di tali obblighi” (Cass. 29 gennaio 2013, n. 2038).
Nella fattispecie, era stata confermata dalla CTU, sotto il profilo medico, che la personalità del lavoratore era stata “alterata e scompensata dai fatti accaduti nell’ambiente di lavoro a partire dal 2004, con descrizione analitica di tutte le conseguenze derivatene”.