Il disagio esistenziale lavorativo determinato dalla dequalificazione professionale va provato dal lavoratore.

Nota a Cass. 4 gennaio 2018, n. 82

Giuseppe Rossini

Il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno non patrimoniale, professionale, biologico o esistenziale, non ricorrendo automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale sfociato in un demansionamento ed una dequalificazione – non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio, sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio medesimo.

È quanto affermato dalla Corte di Cassazione (4 gennaio 2018, n. 82; v. anche Cass. S.U. 24 marzo 2006, n. 6572; Cass. 19 gennaio 2015, n. 777), la quale chiarisce che il danno non patrimoniale attiene alla “lesione di interessi inerenti alla persona non connotati da valore di scambio” (v. Cass. 23 gennaio 2014, n.1361) e “presenta natura composita, articolandosi in una serie di aspetti quali il danno morale, quello biologico e quello esistenziale”.

Nello specifico, costituiscono pregiudizi non patrimoniali “ontologicamente diversi e tutti risarcibili” sia il danno biologico (ossia la lesione della salute) sia quello morale (vale a dire la sofferenza interiore, con significativa alterazione della vita quotidiana, secondo Cass. n. 11851/2015) sia quello dinamico/relazionale, altrimenti definito “esistenziale”, e consistente nel peggioramento delle condizioni di vita quotidiane.

Secondo i giudici, tale conclusione non contrasta col principio di unitarietà del danno non patrimoniale, sancito dalla Cass. S.U. n. 26972/2008, “giacché quel principio impone una liquidazione unitaria del danno, ma non una considerazione atomistica dei suoi effetti” (v. anche Cass. 20 novembre 2012, n. 20292). In altri termini, laddove i pregiudizi ricorrano cumulativamente – “occorre tenere conto in sede di liquidazione del danno, in ossequio al principio dell’integralità del risarcimento, senza che a ciò osti il carattere unitario della liquidazione, da ritenere violato solo quando lo stesso aspetto o voce venga computato due o più volte sulla base di diverse, meramente formali, denominazioni” (si ha, pertanto, duplicazione di risarcimento solo quando il medesimo pregiudizio sia liquidato due volte, sebbene con l’uso di nomi diversi) (Cass. 13 maggio 2011, n. 10527).

La Corte si sofferma anche ad analizzare la nozione di danno esistenziale, precisando che esso sia “da intendere come ogni pregiudizio provocato sul fare areddittuale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all’espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno”. Tale danno, riconducibile alla categoria del danno non patrimoniale, risarcibile ex art. 2059 c.c., può essere desunto, in forza dell’art. 115, co. 2, c.p.c., da massime di comune esperienza, incidenti sulla normale vita di relazione del diretto interessato (e non basta dimostrare la mera potenzialità lesiva della condotta datoriale, ma occorre provare, oltre al demansionamento, il danno non patrimoniale ed il nesso di causalità con l’inadempimento datoriale: v. Cass. 26 gennaio 2015, n. 1327).

In altre parole, il danno esistenziale rappresenta un pregiudizio non reddittuale che determina una modifica peggiorativa consistente in uno sconvolgimento dell’esistenza e in particolare delle abitudini di vita, con alterazione del modo di rapportarsi con gli altri nell’ambito della comune vita di relazione, sia all’interno che all’esterno del nucleo familiare (v. Cass. n. 14402/2011).

La prova di tale sconvolgimento può essere data anche con presunzioni semplici con qualche margine di opinabilità nella “riconduzione – in base a regole (elastiche) di esperienza – del fatto ignoto da quello noto, con il solo limite del principio di probabilità, in base al quale non occorre che i fatti su cui la presunzione si fonda siano tali da far apparire l’esistenza del fatto ignoto come l’unica conseguenza possibile dei fatti accertati secondo un legame di necessarietà assoluta ed esclusiva, ma è sufficiente che l’operata inferenza sia effettuata alla stregua di un canone di ragionevole probabilità con riferimento alla connessione degli accadimenti, la cui normale sequenza e ricorrenza può verificarsi secondo regole di esperienza, basate sul “id quod plerumque accidit”, valutabile ex art. 116 c.p.c. dal giudice, che con prudente apprezzamento può pertanto ravvisare la non necessità di ulteriore prova al riguardo” (v. Cass. 12 giugno 2006, n. 13546).

Danno esistenziale e onere della prova
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