In tema di responsabilità colposa per morte o lesioni da parte dell’esercente la professione sanitaria, le SU della Corte di Cassazione (Cass. Pen. S. U. 22 febbraio 2018, n. 8770) hanno analizzato quale sia “l’ambito applicativo della previsione di ‘non punibilità’ prevista dall’art. 590-sexies c.p., introdotta dalla L 8 marzo 2017, n. 24” (c.d. legge Gelli-Bianco, entrata in vigore il 1 aprile 2017), tenendo conto della «colpa lieve» malgrado la mancata evocazione esplicita da parte del legislatore.
Maria Novella Bettini e Alfonso Tagliamonte
Il principio di diritto. Nello specifico, le SU hanno formulato il seguente principio di diritto:
“L’esercente la professione sanitaria risponde, a titolo di colpa, per morte o lesioni personali derivanti dall’esercizio di attività medico-chirurgica:
a) se l’evento si è verificato per colpa (anche “lieve”) da negligenza o imprudenza;
b) se l’evento si è verificato per colpa (anche “lieve”) da imperizia quando il caso concreto non è regolato dalle raccomandazioni delle linee-guida o dalle buone pratiche clinico-assistenziali;
c) se l’evento si è verificato per colpa (anche “lieve”) da imperizia nella individuazione e nella scelta di linee-guida o di buone pratiche che non risultino adeguate alla specificità del caso concreto;
d) se l’evento si è verificato per colpa “grave” da imperizia nell’esecuzione di raccomandazioni, di linee-guida o buone pratiche clinico-assistenziali adeguate, tenendo conto del grado di rischio da gestire e delle specifiche difficoltà tecniche dell’atto medico”.
La norma. Ai sensi dell’art. 590- sexies c.p. (Responsabilità colposa per morte o lesioni personali in ambito sanitario – art. inserito dall’art. 6, co. 1, L. n. 24/2017):
“[I] Se i fatti di cui agli articoli 589 (omicidio colposo) e 590 (lesioni personali colpose) sono commessi nell’esercizio della professione sanitaria, si applicano le pene ivi previste salvo quanto disposto dal secondo comma.
[II] Qualora l’evento si sia verificato a causa di imperizia, la punibilità è esclusa quando sono rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico-assistenziali, sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alle specificità del caso concreto”.
Le linee guida o buone pratiche (artt. 2, 3 e 5, L. n. 24/2017). La Cassazione ha precisato che le buone pratiche costituiscono una guida per l’operatore sanitario che rappresenta un “condensato delle acquisizioni scientifiche, tecnologiche e metodologiche concernenti i singoli ambiti operativi, reputate tali dopo un’accurata selezione e distillazione dei diversi contributi, senza alcuna pretesa di immobilismo e senza idoneità ad assurgere al livello di regole vincolanti” esse sono finalizzate ad evitare l’”incontrollato soggettivismo del terapeuta, nonché la malpractice in generale”. Esse offrono altresì una “plausibile risposta alle istanze di maggiore determinatezza” riguardanti le fattispecie colpose e rappresentano “parametri tendenzialmente circoscritti per sperimentare l’osservanza degli obblighi di diligenza, prudenza e perizia”.
L’efficacia precettiva delle linee guida dipende dalla loro “adeguatezza alla specificità del caso concreto” (v. art. 5, co.1, L n. 24/2017). Resta cioè al sanitario una potestà di apprezzamento che costituisce il tramite per recuperare la propria autonomia professionale dissolvendo altresì, per l’utenza, il rischio di “appiattimenti burocratici” (ad es., quando, in rapporto al caso specifico, le stesse risultino sbilanciate “verso interessi aziendalistici piuttosto che verso la tutela della sicurezza della cura del singolo paziente”).
Tali linee non sono dunque “norme regolamentari che specificano quelle ordinarie senza potervi derogare”, ma “regole cautelari valide solo se adeguate rispetto all’obiettivo della migliore cura per lo specifico caso del paziente ed implicanti, in ipotesi contraria, il dovere, da parte di tutta la catena degli operatori sanitari concretamente implicati, di discostarsene”.
La colpa. Quanto alla valutazione ed alla misura della colpa, i giudici ribadiscono una serie di principi posti dalla giurisprudenza di legittimità e cioè che:
a) la colpa assume connotati di grave entità soltanto qualora “l’approccio terapeutico risulti marcatamente distante dalla necessità di adeguamento alla peculiarità della malattia, al suo sviluppo, alle condizioni del paziente”. Ovvero, quando sussistano “riconoscibili fattori” che suggerivano l’abbandono delle prassi accreditate, assumendo “rimarchevole, chiaro rilievo” e non lasciando residuare “plausibili dubbi” sulla “necessità di un intervento difforme e personalizzato rispetto alla peculiare condizione del paziente: come nel caso di ‘patologie concomitanti’ emerse alla valutazione del sanitario, e indicative della necessità di considerare i rischi connessi” (v. anche Cass. n. 23283/2016 e n. 16237/2013);
b) circa la valutazione della demarcazione lievità/gravità della colpa, essa va effettuata avendo riguardo alla concrete condizioni in cui opera il sanitario, misurando la colpa stessa sia in senso soggettivo ed oggettivo. Bisogna perciò considerare sotto il profilo soggettivo: 1) il grado di specializzazione e le specifiche condizioni del sanitario; 2) la motivazione della condotta; 3) e la consapevolezza o meno di tenere un comportamento pericoloso. E, per l’aspetto oggettivo: 1) la particolare difficoltà delle condizioni in cui il medico ha operato; 2) la problematicità o equivocità della vicenda; 3) l’impellenza; 4) il grado di tipicità e novità della situazione; 5) e la complessità obiettiva di cogliere e collegare le informazioni cliniche (v. anche Cass. n. 22405/2015 e n. 47289/2014).