Per la Corte di Giustizia UE, il licenziamento della lavoratrice madre è ammesso anche se non vi è chiusura dell’intera azienda.
Nota a Corte di Giustizia UE 22 febbraio 2018, C-103/16
Fabio Iacobone
Nel nostro ordinamento, il licenziamento collettivo della lavoratrice madre è consentito solo in caso di cessazione dell’attività dell’azienda (ai sensi dell’art. 54, co. 4, DLGS n. 151/2001, come integrato dall’art. 4, co. 2, DLGS n. 115/2003).
Più permissiva è invece la linea seguita dalla pronunzia della Corte di Giustizia UE (22 febbraio 2018, C-103/16), che si discosta da tale divieto, stabilendo che la Direttiva 92/85 non osta ad una normativa nazionale che consenta il recesso nei confronti di una lavoratrice gestante a causa di un licenziamento collettivo (di cui alla Direttiva 98/59, art. 1, punto 1, lett. a)) – o che non preveda una priorità al mantenimento del posto di lavoro nonché una priorità di riqualificazione applicabili prima di tale licenziamento, per le lavoratrici gestanti, puerpere o in periodo di allattamento -. Ciò, purché l’atto sia fondato su motivi non connessi allo stato di gravidanza della lavoratrice.
Inoltre, secondo la Corte, la Direttiva 92/85, (in particolare art. 10, punto 1) contiene unicamente prescrizioni minime e, dunque, non esclude la facoltà per gli Stati membri di garantire una protezione più elevata alle lavoratrici gestanti, puerpere o in periodo di allattamento (v., in tal senso, sentenza 4 ottobre 2001, C‑438/99, EU:C:2001:509, punto 37).
Più specificamente, qualora una lavoratrice sia licenziata per riduzione di personale durante il periodo compreso tra l’inizio della gravidanza ed il termine del congedo di maternità, il datore di lavoro è tenuto a fornire per iscritto “giustificati motivi di licenziamento”, in particolare esponendo i motivi economici, tecnici o relativi all’organizzazione o alla produzione dell’impresa, “non inerenti” alla lavoratrice stessa alla base della riduzione di personale ed indicando i “criteri oggettivi adottati per indicare i lavoratori da licenziare”.
Con riguardo, invece, al recesso per motivi fondati sulla condizione personale della lavoratrice, la Corte precisa che, nei confronti delle lavoratrici gestanti, puerpere e in periodo di allattamento, l’art. 10 della Direttiva 92/85 opera un’espressa distinzione tra “tutela contro il licenziamento stesso, a titolo preventivo”, e “tutela contro le conseguenze del licenziamento, a titolo di risarcimento” .
Per quanto concerne il primo aspetto (tutela preventiva) il legislatore UE: a) muove dal presupposto che “il rischio di essere licenziate per motivi connessi al loro stato può avere effetti dannosi sullo stato fisico e psichico delle lavoratrici gestanti, puerpere o in periodo di allattamento e occorre prevedere un divieto di licenziamento di queste ultime” (quindicesimo considerando della Direttiva 92/85); b) sicché, “in considerazione dei rischi che un eventuale licenziamento fa gravare sullo stato fisico e psichico delle lavoratrici gestanti, puerpere o in periodo di allattamento, ivi compreso il rischio particolarmente grave di spingere la lavoratrice gestante ad interrompere volontariamente la gravidanza”, ha previsto una protezione specifica per la donna, sancendo il divieto di licenziamento nel periodo compreso tra l’inizio della gravidanza e il termine del congedo di maternità (art. 10 Direttiva cit. e sentenze 14 luglio 1994, C‑32/93, EU:C:1994:300, punto 21, e 11 novembre 2010, C‑232/09, EU:C:2010:674, punto 60).
Ne consegue l’inammissibilità dell’adozione sia di un provvedimento di licenziamento, sia di “misure preparatorie al licenziamento, quali la ricerca e la previsione di una sostituzione definitiva dell’impiegata interessata a causa della gravidanza e/o della nascita di un figlio” (v., sentenza 11 ottobre 2007, C‑460/06, EU:C:2007:601, punto 33).
Per quanto attiene al secondo aspetto, per i giudici, “tenuto conto del rischio che un licenziamento fa gravare sullo stato fisico e psichico delle lavoratrici gestanti, puerpere e in periodo di allattamento, la tutela a titolo di risarcimento, anche nell’ipotesi in cui sfoci nella reintegrazione della lavoratrice licenziata e nel versamento delle retribuzioni non percepite a causa del licenziamento, non può sostituire la tutela a titolo preventivo”, nel senso che va accompagnata dall’espresso divieto di recesso per motivi fondati sulla condizione personale della lavoratrice.
Pertanto, “gli Stati membri non possono limitarsi a prevedere unicamente, a titolo di risarcimento, la nullità di tale licenziamento se questo è ingiustificato”. In quanto il licenziamento delle lavoratrici nel periodo compreso tra l’inizio della gravidanza e il termine del congedo di maternità “osta a una normativa nazionale che non vieti, in linea di principio, il licenziamento di una lavoratrice gestante, puerpera o in periodo di allattamento, a titolo preventivo, e che preveda unicamente la nullità di tale licenziamento se questo è illegittimo, a titolo di risarcimento” (in base all’art. 10, punto 1, Direttiva cit.).
La sentenza – nella parte relativa alla possibilità di licenziare le lavoratrici madri nell’ambito di una procedura di riduzione del personale – non avrà, comunque, alcun impatto immediato sulle norme vigenti in Italia, che, come detto, impediscono, anche in caso di procedura collettiva, il licenziamento della lavoratrice madre, a meno che non ci sia una chiusura dell’intera azienda.